Il libro. Martini, il terrorismo e l'arma del perdono
Carlo Maria Martini
«La mattina di sabato 13 giugno, in una Milano calda e con le strade prive del traffico caotico dei giorni lavorativi, un giovane fra i venticinque e i trent’anni, alto circa un metro e ottanta, entra indisturbato nella Curia arcivescovile e sale fino all’ufficio del segretario di Martini, don Paolo Cortesi. Il giovane, senza dire parole, appoggia indifferente tre borse per il cardinale ed esce prima che il segretario concluda la conversazione telefonica cui è intento».
La frettolosa consegna, preannunciata due giorni prima da una telefonata, è dovuta al contenuto scottante di quelle borse di tela: «Due fucili Kalashnikov modello Ak 47 con relativi caricatori, un fucile mitragliatore Beretta calibro 9, un moschetto automatico Beretta calibro 9, una pistola Beretta calibro 9 e una calibro 22, una pistola Gabilondo di fabbricazione spagnola, un razzo per bazooka del tipo Bd M 404, quattro bombe a mano, centoquaranta proiettili di vario tipo».
È il meticoloso racconto di Carlo Maria Martini e gli anni di piombo. Le fatiche di un vescovo e le voci dei testimoni, libro appena uscito per le edizioni Ancora (pagine 351, euro 27,00). È la tesi di una laurea magistrale in Scienze religiose sostenuta da Silvia Meroni, docente e ausiliaria diocesana della curia milanese. Un lavoro prezioso per documentare il prima e il dopo di quella storica consegna, per non relegarla frettolosamente dentro un “perdonismo” superficiale dei destinatari, usato come “lavanderia” da assassini cinici a caccia di sconti di pena. È il racconto, invece, di un lungo cammino condotto dalla Chiesa, in primo luogo dalla Chiesa ambrosiana, avviato con i parenti delle vittime.
Da loro sono arrivati i primi poderosi segnali, che non sono rimasti inascoltati, nelle carceri e fuori, dai militanti della lotta armata. Fu Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, a indicare per prima la strada, ritrovandosi vedova a soli 25 anni, il 17 maggio 1972: nel necrologio, su invito della madre, fece sua l’invocazione di Cristo sulla croce: «Padre, perdona loro che non sanno quello che fanno!». Una strada poi scandita da alcuni episodi eclatanti e da tenaci testimoni della fede, in prima linea i cappellani delle carceri. Uno di questi episodi è certo la memorabile preghiera dei fedeli di Giovanni Bachelet, altro venticinquenne arrivato alla più dura delle prove con la forza della fede a suggerire un’impensabile via d’uscita. Quella preghiera per gli assassini alla chiesa di San Roberto Bellarmino, a Roma, da parte del figlio di un suo caro amico, Vittorio Bachelet – il presidente di Azione Cattolica divenuto vicepresidente del Csm – segnò profondamente l’animo di Martini, e mobilitò le coscienze. Si mosse anche il fratello, padre Adolfo Bachelet, a incontrare i terroristi in tutta Italia.
Altro episodio che segnò l’animo di Martini, la preghiera che si trovò a recitare davanti al corpo crivellato del giudice Guido Galli, ucciso alla Statale a poche centinaia di metri dall’arcivescovado: «Ero veramente sconvolto da ciò che avevo visto; per la prima volta incontrai quella forma di crudeltà, di cui avrei dovuto fare esperienza altre volte». Quell’inizio degli anni ‘80 fu segnato, però, oltre che dall’onda lunga della scia di sangue del decennio precedente, anche dalle deposizioni dei primi “pentiti”, che usufruirono di sconti di pena senza nemmeno che ci fosse stato il tempo, ancora, per un cammino di riconciliazione e per una adeguata comprensione della pubblica opinione. Martini, con don Antonio Riboldi, difese la scelta dello Stato di attribuire robusti sconti di pena a chi collaborava.
Ma spiegò: «Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. il “pentito” dovrà ancora dire “il mio peccato mi sta sempre dinanzi”». Un cammino ancora tutto da fare: «La violenza – scrive Silvia Meroni – è la massima contraddizione dell’amore di Dio. E Martini vuole incontrare chi ha procurato tanto dolore, trovare una via di dialogo con chi, determinando con la violenza la vita di molte famiglie, tradisce innanzitutto la propria umanità». L’arcivescovo di Milano con i protagonisti della lotta armata punta a «promuovere un rovesciamento di prospettiva». I promessi sposi gli offrono il potente esempio di un grande predecessore: la figura del cardinale Borromeo e il capolavoro manzoniano della conversione dell’Innominato. Dopo il pentitismo “giudiziario”, ancora inserito in una logica bellica di “do-ut-des” inizia un lavoro pienamente incardinato nel valori costituzionali della rieducazione del condannato e in quello evangelico del perdono, simboleggiato dalla parabola del figliuol prodigo. Il seme gettato dai primi familiari produce grandi risultati grazie alla mano tesa di tanti uomini di Chiesa. Questo libro ne fornisce un quadro finalmente completo.
Detto di padre Bachelet, vengono ricordate suor Teresilla Barillà, don Luigi Melesi, padre David Maria Turoldo, padre Camillo del Piaz, don Germano Greganti. In cima a questo lungo elenco figura don Salvatore Bussu, autore del celebre “sciopero della messa di Natale” del 1984 al supercarcere di Badu ‘e Carros a Nuoro, a sostegno dello sciopero della fame degli ex terroristi che chiedevano condizioni carcerarie più umane. Fondamentale nel racconto di Silvia Meroni anche il lavoro pastorale svolto da don Luigi Melesi, storico cappellano di San Vittore che trova in Martini «un uditore capace di ascoltarlo, di comprendere le sue fatiche, di collaborare ai suoi progetti». Ma in questo cammino della Chiesa qualcosa di molto importante era accaduto a Rebibbia, altro storico “laboratorio” di riconciliazione, dove il perdono aveva fornito, il 17 febbraio del 1981, il più eclatante dei gesti, l’incontro di Giovanni Paolo II con Ali Agca. Chi iniziava a lavorare nell’ombra prese coraggio, fino a quel sabato mattina a Milano, tre anni dopo. Quando l’“arma” del perdono si prese la sua rivincita.