Teatro. Il giullare Martelli nel "Mistero buffo" di Dario Fo
L’attore teatrale Matthias Martelli in scena nel ”Mistero buffo” di Dario Fo
Sono passati cinquant’anni dal debutto di Mistero buffo, capolavoro del teatro di narrazione del futuro Premio Nobel Dario Fo. Un atto unico, composto da monologhi perlopiù di ispirazione biblica riproposti in chiave satirica, concepito come una “giullarata” popolare, in una lingua inventata e onomatopeica, di ispirazione medievale e mescolata con i dialetti padani: il grammelot. Un classico del Novecento che al debutto teatrale, il 1° ottobre 1969, suscitò polemiche, ancor più accese all’indomani della trasmissione televisiva su Rai 2 nell’aprile del 1977. Fo venne accusato di vilipendio della religione e alla Rai fu chiesto di sospendere la messa in onda. A cinquant’anni di distanza, Eugenio Allegri (alla regia) e Matthias Martelli (alla maestria, senza trucchi o scenografia) stanno riportando in scena – con un patto – Mistero buffo nella stessa versione che videro da ragazzi: Allegri dal vivo nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere, nel 1974, a Palazzo Nuovo; Martelli da bambino, in una vecchia videocassetta dei genitori, che riproduceva proprio quello spettacolo in tv del ’77. «Il patto – racconta Martelli – è nato così: avevo deciso che avrei voluto fare Mistero buffo, la mia passione di sempre, perché ho iniziato a fare teatro per Fo, quando a 10 anni ho visto quella videocassetta, e nella follia dei miei 29 anni ho chiesto ad Allegri di farlo insieme. Lui ha detto sì, ma che avremmo dovuto rifare il Mistero buffo che lui aveva visto dal vivo a Torino, e che avremmo dovuto trattarlo come un classico universale».
Lo spettacolo è stato prodotto dal Teatro Stabile di Torino, in collaborazione con Art Quarium. Dopo aver inaugurato al Gobetti, martedì 5 novembre sarà rappresentato in Belgio, all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, il 9 all’Eliseo di Roma e l’11 in Germania, all’Istituto Italiano di Cultura di Monaco. Le “giullarate” riportate in scena sono quattro, riproposte a cicli di tre, di cui due fisse: La nascita del giullare e la Parpaia topola, e due alternate: Il primo miracolo di Gesù bambinoe Bonifacio VIII. Nella versione che i due avevano realizzato nel 2017 c’erano anche Il miracolo delle nozze di Cana e la Resurrezione di Lazzaro. «Quella su cui ho lavorato di più – spiega Martelli – è Bonifacio VIII, perché il canto iniziale ha una grossa complessità tecnica, gioca su registri diversi, mimica e ritmica, mentre la più pirotecnica è Il primo miracolo di Gesù bambino, che è anche quella forse più attuale, con Gesù bambino che viene mandato via perché è straniero, e allora inventa un gioco stupendo, un miracolo, e fa volare degli uccellini di creta con un soffio per conquistare gli altri bambini».
In questo spettacolo, che ha due anime, c’è tanto Martelli con il suo talento e l’istinto, quanto Allegri, che ha fatto un grosso lavoro di regia sull’attore per l’uso degli spazi e la gestualità; tra i due, c’è l’intesa di uno sguardo: «La fortuna – commenta Allegri – è stata avere maestri come Jacques Lecoq, con la sua pedagogia teatrale, l’uso delle traiettorie, degli spazi e della fisicità – e quella è la lezione principale –, ma anche la Commedia dell’arte, che mi ha permesso di sviluppare un lavoro con il pubblico insieme a Carlo Boso, dove viene fuori la consapevolezza dell’assenza della quarta parete, e si acquisiscono altre regole. Nel mezzo c’è stato Fo. Ho pescato da quegli incontri e dalla mia esperienza di attore». L’incontro con Fo è stato fondamentale anche per Martelli: «I miei genitori insegnano filosofia all’Università di Urbino, hanno fatto il ’68, e per loro Fo era un mito, e quando mi hanno fatto vedere quella cassetta è stato sorprendente, perché mi faceva immaginare cose che non esistono, faceva esplodere l’immaginazione e aveva un modo di giocare genuino, reale, si divertiva con i personaggi, e il divertimento era così profondo che usciva dalla videocassetta. Lì ho capito che alla base di tutta la comicità c’è il gioco. E poi lui ha saputo recuperare la tradizione degli ultimi, degli esclusi, degli sfruttati. Facevo scuola di teatro, dovevo fare un esame su un autore e scrissi a Fo, mi rispose una segreteria per avere il mio numero, e dopo mezz’ora il telefono squillò. Era lui, e mi faceva i complimenti per la lettera che avevo scritto. Mi invitò a incontrarlo. Una persona di grande umiltà, che mi fece pensare che la vera grandezza è proprio quella lì. Mi disse una frase che porto sempre dentro: “La cose più importanti della mia vita sono state le crisi”, perché così era riuscito a prendere le difficoltà non come fatti su cui sbattere la testa, ma come occasioni».
Come si convive con quel-l’eredità? «Non percepisco il teatro come una gara e non mi sento in giudizio. L’obiettivo è entrare in connessione con il pubblico, è lì che si crea un’altra cosa. Fo purtroppo è morto e quindi o cerchiamo un’energia con il pubblico o tutto questo si perde. E poi l’eredità non è solo riportare in scena Fo, ma prendere il suo stile e portarlo in opere nuove, perché abbiamo il compito di fare rinascere un teatro vivo. Oggi c’è un po’ di difficoltà ad accogliere il nuovo nel teatro, si tende al conformismo, non c’è rischio, ma anche il rischio è importante. Per me il teatro è l’apoteosi di come dovrebbe essere la vita, godi del momento presente e diventa l’unica cosa che ha valore. E poi è esplosione di immaginazione, uso del cervello. Il teatro fa venire fuori emozioni sepolte, cose personali, problemi della nostra cultura, sensi, emozioni; se diventa solo esibizione, perdiamo tutti, perché diventa la stessa cosa che facciamo sui social ». In tutte le “giullarate” il messaggio è dirompente e universale, di lotta contro potere e arroganza: «Il pubblico – conclude Allegri – è coinvolto, passa in un lampo dal lazzo comico alla poesia, fino alla tragedia umana e sociale, toccando temi e argomenti che riguardano la società civile e il nostro tempo. È un modello di satira politica, e il fatto che a fare questo Mistero buffo sia un trentenne è un valore aggiunto, perché può parlare ai giovani. Se Fo ha vinto il Nobel una ragione c’era, gli accademici hanno premiato lo scrittore, perché ci sono in quell’opera elementi di modernità. E il teatro per me continua a essere la forma più importante di comunicazione, perché verifica costantemente la realtà attraverso un’altra realtà, e il pubblico misura se stesso con quella realtà, tenendo viva e vivace una società, contenendo così una visione politica, in una dimensione poetica».