Il 13 gennaio 1915, poco prima delle 8 del mattino, uno spaventoso terremoto sconvolse l’area della Marsica nell’Abruzzo centrale, in provincia dell’Aquila. Avvertito a centinaia di chilometri di distanza, causò oltre trentamila morti, con il crollo della massima parte degli edifici in circa cinquanta tra comuni e frazioni, il maggiore dei quali, con un tributo di 9.238 vittime, era Avezzano, al cui nome il sisma viene infatti ancor oggi associato. Secondo solo al terremoto/maremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908 che superò i centomila morti, è uno dei più gravi terremoti censiti nella storia d’ogni tempo. All’epoca l’arretrata organizzazione sociosanitaria, la devastazione della rete viaria, la mancanza di mezzi per il trasporto dei feriti e l’imminenza dell’entrata in guerra dell’Italia che sarebbe avvenuta di lì a pochi mesi (maggio 1915), col richiamo delle truppe inviate a soccorrere la popolazione, aumentarono il numero dei morti; nelle settimane successive al sisma, la popolazione era stata infatti provvisoriamente soccorsa da molti militari inviati lì, e alloggiata in tende di fortuna, presso le case abbattute, in quel gelido e nevoso inverno. Da ufficiali e comandanti vengono dunque le prime testimonianze del terremoto, scritte con linguaggio militare, in forma di verbale sulle attività quotidianamente svolte, e non senza richiami, in stile turgido, al patriottismo e alla dedizione all’esercito e alla Corona dei Legionari, che sono i primi ad arrivare. Ne deriva un singolare contrappunto rispetto alle tragiche condizioni dei terremotati, quali emergono alla prima vista. La loro prima reazione è di ostilità per lo Stato, che li ha abbandonati a se stessi per almeno due giorni da quella tragica alba del 13. Alla fine il primo treno che viene dal Nord Italia e che ha viaggiato per tutta la notte, fatta tappa sulla costa a Pescara, riesce ad arrivare nell’area più terremotata, dopo che nelle stazioni intermedie dell’entroterra la folla ha cercato di impedire la ripartenza del convoglio, per salirvi. Così descrive un comandante l’arrivo in una frazione di Avezzano, che gli appare come «la capitale del disastro. Giunti sul posto, constatammo che nessuna casa si era salvata, che il sindaco e 15 dei 16 consiglieri comunali erano periti e che su 1.300 abitanti – parla di Cese, presso Avezzano – solo 230 erano sopravvissuti. Nessuna autorità militare o civile era presente. Facilmente s’immagina lo stato di esasperazione dei superstiti. Le prime parole rivolteci furono di protesta e di rimbrotto, come se nostra fosse stata la colpa se fino a quel momento nessun essere umano aveva potuto soccorrere quello squallore e curare le piaghe che il rigore della stagione e il sudiciume avevano esasperate. Pregai un frate di interporre la sua autorità per esortare quegli infelici a tacere e ad attendere che il medico predisponesse gli strumenti e i materiali per le medicazioni. Bastò la notizia che un medico era tra noi per far tacere ogni voce, mentre rapidissimamente s’improvvisava un posto di medicazione e i feriti si allinearono senza più un gemito; nessuna gara per arrivare primi al soccorso, più d’uno cedette il posto al vicino, dicendo: “Va’ tu che stai peggio”. Si vide la bontà e robustezza del temperamento abruzzese. Una a una i feriti protesero le membra dilaniate, ma il chirurgo non riuscì a strappare un grido: qualche lacrima fu vista rotolare sulle guance abbronzate, qualche spasmo contrarre il volto, senza che il silenzio fosse rotto. L’ordine fu sempre ammirabile. A questa forza d’animo del popolo fu dovuto se, in quella sola serata, si poterono curare più di cento persone». Nel frattempo si attrezzavano i ricoveri e la popolazione trovava il primo ristoro, e riprendendo ad alimentarsi con una certa regolarità. Un’urgenza fu data dalla raccolta e dal seppellimento dei cadaveri «già in putrefazione – si legge –, alcuni orribilmente deformati», per prevenire epidemie. Il tutto avveniva in un irreale biancore depositatosi sulle rovine, quali le foto mostrano: è gennaio ma non è neve, è malta polverizzata nel terremoto, sollevatasi in forma di densa nube e ricaduta in un mortale fall out sui superstiti, non pochi dei quali, salvatisi dallo scossa, morirono poi per soffocamento. Non vi era infatti cemento un secolo fa: solo la malta teneva insieme i sassi e l’acciottolato di fiume con cui da sempre venivano tirati su muri poco resistenti alle onde d’urto. Sicché di questa nube bianca che avvolge tutto parlano, come primo impressionante fenomeno successivo ai crolli, i resoconti a noi giunti: a partire dal 1703, in questa terra la cui storia è stata sempre scandita dai terremoti fino ai nostri giorni, fino al 6 aprile del 2009, col terremoto della città dell’Aquila. In questi anniversari l’Abruzzo sgrana il suo rosario di pena, ripete i suoi misteri dolorosi, leva la sua asciutta disperazione al cielo. E il dialetto ha da sempre deformato la parola terremoto in un’altra simile, “tremuoto”, forse per trovarvi un’eco del tremore delle case, delle cose, degli uomini e delle anime di fronte al nemico di sempre, in periodica riemersione dalle viscere della terra. Questa devastata terra, la Marsica, deve il suo nome all’antica popolazione italica dei Marsi (temuti dai Romani, i quali usavano dire: «Nec contra Marsos nec sine Marsis», in guerra mai contro i Marsi come nemici, mai senza di loro come alleati); fu sede di quartieramento di legioni imperiali, per la vicinanza a Roma. Sul grande lago Fucino nel 52 d.C. si svolsero le grandiose naumachie, o battaglie navali, volute dall’imperatore Claudio per celebrarne il parziale prosciugamento, completato 1.800 anni dopo dai Torlonia. È la terra attraversata da san Francesco d’Assisi, poi patria del cardinale Mazzarino, di Benedetto Croce e d’Ignazio Silone. È la terra degli umili, dei “cafoni di Fontamara” di siloniana memoria – ruvidi e operosi, fieri e silenziosi, testardi e indomabili – abruzzesi il cui nome non si legge sui libri di storia ma su tante lapidi, seminterrate e consunte dal tempo, recanti tutte la data del 13 gennaio 1915; o neanche su quelle, per il gran seppellimento dei corpi avvenuto in fosse comuni. LE RARE FOTOGRAFIE DI JOHN LANSING CALLAN (qui pubblicate)Queste preziose foto hanno avuto una sorte particolare: depositate negli Stati Uniti per quasi un secolo, erano di fatto sconosciute in Italia. Il loro recupero e la loro valorizzazione si devono soprattutto allo studioso Paolo Lo Russo di Avezzano, che le ha rese disponibili per “Avvenire”. Furono scattate nei giorni successivi al sisma da John Lansing Callan (1886-1958), istruttore di aviazione statunitense ingaggiato nel 1915 dalla Regia Marina per la scuola aeronautica militare di Taranto, il quale attraversò con la propria automobile l’Abruzzo devastato per fotografarlo; i suoi eredi donarono le foto alla Us Geological Survey, nella cui galleria furono scovate da un altro studioso, sempre originario di Avezzano e residente in Canada, Ernesto Salvi, nel 2010. (G.D’A.)