Testimonianza. Mariapia Veladiano: «Un Natale più vicino alle stelle»
Ci eravamo messi d’accordo per vederci a Vicenza, dopo di che abbiamo esitato, rimandato, quasi confermato. Alla fine ci siamo arresi al principio di precauzione, ripiegando su una lunga videochiamata online. Anziché lo scenario sontuoso della Basilica palladiana, è la casa in cui Mariapia Veladiano vive a fare da sfondo. La scrittrice parla da un angolo della campagna veneta. Fuori dalla stanza in cui si trova il suo studio si immagina un paesaggio non troppo diverso da quello in cui è nata e cresciuta.
«Sì – conferma –, sono molto grata alle mie origini. Intendiamoci, nella civiltà contadina di mezzo secolo fa non c’era nulla di bucolico, nulla di idealizzabile a buon mercato. Era un’esistenza povera, perfino dura: di tutto questo so che rimane una traccia in me. La cognizione che la nostra vita dipende dalla terra, ecco che cosa mi resta della mia infanzia. Oggi per i giovani è più difficile capirlo, perché c’è l’impressione che tutto possa essere comprato e rimpiazzato velocemente, di norma nel giro di venti minuti. Manca la consapevolezza di un tempo lungo, condiviso. Fin da bambina, invece, ho conosciuto la sensazione degli oggetti che passano di mano da una generazione all’altra. E gli alberi, la saggezza degli alberi: qualcuno li ha piantati per te, tu sei chiamato a piantarne altri per qualcuno che neppure conosci. La fede è in primo luogo questa fiducia nel tempo».
Non è una biografia prevedibile, quella di Mariapia Veladiano. Esordiente tardiva, sul crinale dei cinquant’anni (il suo primo romanzo, La vita accanto, uscì nel 2011 ed entrò subito nella cinquina del premio Strega), ha sempre scritto molto per sé stessa: «All’inizio erano piccole favole che non lasciavo leggere a nessuno – dice –. Non volevo espormi, era un’ipotesi che mi intimidiva. A differenza di altri generi, come la saggistica, la narrativa comporta un coinvolgimento maggiore. Si finisce sempre per raccontare qualcosa di sé e questo, per molto tempo, mi è sembrato inconcepibile».
In ambito teologico, però, il suo nome era tutt’altro che sconosciuto, principalmente per via dell’assidua collaborazione alla rivista Il Regno, sulla quale scrive ancora oggi. L’incontro decisivo, del resto, è stato proprio quello con la teologia. Avvenuto, una volta di più, in circostanze abbastanza imprevedibili.
Basso Cannarsa
«Torniamo al mio esame di maturità – racconta la scrittrice –. Mi ero appena diplomata al Pigafetta, il liceo classico di Vicenza, e già quello era stato un bel salto. Era la scuola della buona borghesia cittadina, la frequentavano i figli dei professionisti, le eccezioni come la mia erano davvero pochissime. C’era il rischio di farsi assorbire da un ambiente molto autoreferenziale, ma per me fu un’opportunità di riscatto. Feci una scorpacciata di greco e di latino, scoprii la filosofia, mi resi conto che esistevano molti altri libri oltre ai romanzi di cui mia madre era lettrice appassionata. A liceo terminato, arrivò la proposta della cosiddetta “Maturità Teologica” organizzata dai gesuiti a Selva di Val Gardena. Venivo da un contesto religioso, ma nella campagna veneta di allora si praticava un cattolicesimo molto tradizionale, era come se l’eco del Concilio Vaticano II non fosse ancora arrivato. Quei quindici giorni di studio e di confronto, a contatto con biblisti quali Silvano Fausti e Filippo Clerici, mi fecero capire che c’era un altro modo di leggere le Scritture. Fu un’illuminazione, accompagnata da una sensazione di libertà e di ricchezza mai avvertita prima. Pensai subito che quello era il mio posto».
Due lauree, prima in Teologia e poi in Filosofia, in entrambi i casi sull’opera di Dietrich Bonhoeffer, il grande pensatore luterano morto martire per la sua opposizione al nazismo. E intanto l’insegnamento, l’incarico di dirigente scolastica, gli articoli di approfondimento. «Ma lì è meno impegnativo – commenta Veladiano –. Ti documenti, cerchi di esprimere con chiarezza, in definitiva il risultato è pressoché inattaccabile. Con un romanzo, invece, si esce allo scoperto, non c’è niente da fare. Per me, che sono sempre stata riservata e solitaria, era un passaggio troppo complicato. Ripensandoci, mi sono convinta che il racconto sia stata la mia personale forma di autocoscienza, per usare un’espressione cara al femminismo. Non ho mai fatto parte di collettivi, non avevo alcuna intenzione di dare voce direttamente alla mia esperienza. L’ho fatto attraverso i miei libri, trasfigurando nella scrittura una parte di quello che ho vissuto. Detto questo, nessuno dei miei romanzi può essere considerato autobiografico in senso stretto».
Da questo equilibrio fra teologia, esperienza e letteratura sono nati i romanzi Il tempo è un dio breve del 2012 e Una storia quasi perfetta del 2016, oltre alle riflessioni apparse originariamente sulla prima pagina di Avvenire e raccolte in volume nel 2013 con il titolo Ma come tu resisti, vita. Un posto a parte merita Lei del 2017, che interroga con estrema delicatezza l’interiorità di Maria di Nazareth.
«Di solito, nelle storie che racconto, l’elemento religioso non è programmato in modo intenzionale – spiega Veladiano –. Eppure è una presenza inevitabile: non c’è e non può esserci differenza tra il modo di vedere la vita e quello di vedere la fede, lo sguardo che si posa sulla realtà è sempre lo stesso. In questo senso, trovo molto importante uno scrittore come Joseph Malègue, non a caso molto amato e citato da papa Francesco. I suoi libri descrivono la Francia del primo Novecento con schiettezza, senza cercare di schiacciare gli eventi della trama su una prospettiva di fede. Proprio per questo, sprigionano una forza spirituale ancora oggi impressionante per volontà di innovazione».
In gennaio sarà in libreria il nuovo romanzo di Mariapia Velapiano: Adesso che sei qui, edito da Guanda. «Mi piace definirlo una storia d’amore tra una zia e una nipote, perché è proprio di questo che si tratta – anticipa l’autrice –. Una ha cresciuto l’altra e ora, nel momento in cui nella più anziana emergono i primi segnali di disorientamento, la più giovane decide di tenerla con sé, rifiutando l’ipotesi di ricoverarla in una struttura. Quando ho iniziato a lavorarci la pandemia era ancora lontana, in seguito anch’io sono rimasta colpita dalla coincidenza con quanto è accaduto in tante Rsa».
L’ombra del tormentato 2020 si proietta anche sul Natale. «Ma per molti nel mondo questa del Natale difficile non è una novità, purtroppo – sottolinea Veladiano –. Anzi, a voler essere onesti ci sarebbe da ammettere che il Natale più difficile di tutti i tempi è stato il primo. Storicamente la nascita di Gesù è segnata dalla precarietà, tanto simile a quella di un uccellino sul ramo. Ma proprio in questa incertezza sta la bellezza della vita. Se tenessimo a mente il modello di Betlemme, nulla potrebbe più spaventarci. In concreto, però, non è così. Veniamo da un lunghissimo periodo di benessere, che ci ha fatto completamente dimenticare l’eccezionalità della nostra condizione di privilegiati. Ci siamo convinti che esistesse solo questo Natale, il Natale dell’Occidente ricco e opulento. Per accorgerci dell’errore sarebbe stato sufficiente guardare alla terra in cui Gesù è nato, il Medioriente. Ma anche altrove il Natale è da sempre il momento in cui emergono fragilità profonde, che sono le fragilità dell’esistenza, né più né meno. Le stesse, insisto, che la nostra società si è impegnata a dimenticare con successo, allontanando da sé la vista della malattia e della vecchiaia. I credenti dovrebbero esserne consapevoli più di ogni altro, ribellandosi a un conformismo che nessuno, in fondo, può veramente dire di aver scelto. Magari non ci piace, ma ci siamo ritrovati ad aver che fare con questa mentalità, con questa illusione terribile che l’appuntamento con la fragilità possa essere rinviato in maniera indefinita: più avanti, non adesso, almeno non a Natale…».
Nei mesi scorsi le occasioni per confrontarsi con la fragilità non sono mancate. La scrittrice si sofferma in particolare su quelle patite dalla scuola. «La mia impressione – afferma – è che l’emergenza abbia aiutato i ragazzi a cogliere in tutta la sua pienezza l’importanza della scuola. Prima era data per scontata, adesso viene rivalutata anche nella dimensione della fatica reciproca che ha pesato su studenti e insegnanti. L’espressione “didattica a distanza” non mi sembra adeguata a descrivere l’impegno di tante persone. Preferirei parlare di una scuola di prossimità, capace di entrare nelle case così da trasmettere fiducia e speranza. Ancora una volta, è il tempo disteso della terra e delle stagioni che può guidarci nel maturare una nuova visione del mondo e, sì, anche della scuola. I ragazzi hanno bisogno di riscoprire che in ogni persona e in ogni avvenimento si nasconde un frammento di saggezza che chiede di essere tramandato come parte di un disegno più grande, al quale siamo tenuti a contribuire, ma che non ci appartiene mai del tutto. Ci aspetta un Natale doloroso, che non ci saremmo maio augurati. Ma è un Natale che somiglia moltissimo a quello che tanti altri popoli hanno vissuto e vivono senza che noi prestassimo attenzione».
Anche il collegamento che stiamo adoperando per questa intervista è un portato della fragilità collettiva sperimentata nell’anno ormai al termine. Prima di salutarci, chiedo a Mariapia Veladiano se non ci sia stato, per lei, un Natale al quale sia legata in modo speciale. Lei resta un po’ in silenzio, sorride, si congeda con il dono di un racconto brevissimo e prezioso: «Era il 1996, eravamo in un piccolo albergo di montagna con nostro figlio ancora piccolo, ed eravamo circondati da quasi due metri di neve, isolati da tutto. Non avevo mai visto così tante stelle, non mi ero mai sentita così vicina al cielo. In quell’istante ho avuto la percezione assoluta del divino. Non capita tutti i giorni, perché la fede cresce semmai nel silenzio della quotidianità. Quando si manifesta, però, l’epifania è straordinaria. E indimenticabile».