Una leggenda Mundial della Juventus, come Marco Tardelli, ha eletto Claudio Marchisio (classe 1986) a suo erede naturale. La stoffa del ragazzino che studia da “Gerrard” c’è tutta, l’umiltà pure. Ha segnato 2 gol alla prima stagione da titolare bianconero, ma ci tiene a precisare: «Quello con la Fiorentina è stato molto bello, con il Napoli devo dire grazie a Blasi...». Parla con il piglio del veterano il “James Dean” di Chieri e l’unico dettaglio da ventenne sono i brillantini ai lobi: «Ma li metto solo quando esco da Vinovo...».
Che cosa significa oggi essere un “giovane” nel calcio italiano? «Vuol dire fare molta più fatica per emergere rispetto ad altri campionati europei. Vedi la Premier: i ventenni abbondano e non solo nell’Arsenal».
Eppure la Juventus ha mandato allo sbaraglio debuttanti come lei, Giovinco, De Ceglie, Ariaudo... «Paradossalmente, tre anni fa, il momento più brutto della storia della Juve (la retrocessione in B), si è trasformato in una grande chance per noi ragazzi nati e cresciuti nel vivaio bianconero. Per me e Giovinco è stata fondamentale la stagione in prestito all’Empoli, una di quelle poche società che ancora puntano sui giovani emergenti. Da noi spesso manca il coraggio di rischiare».
A Capello non è mancato visto che la convocava in prima squadra. «Capello lo vedevo come un generale e provavo soggezione. Poi ho scoperto la sua grande disponibilità e oggi posso solo ringraziarlo, la sua fiducia mi ha dato tanta sicurezza».
Cosa serve per arrivare ad essere titolare nella Juventus? «La differenza la fa sempre la testa. Ne ho visti tanti di ragazzi fortissimi perdersi tra i 13 e i 16 anni... Testa e sacrificio, allenarsi un giorno in più, piuttosto che uscire con la ragazzina determina- no il futuro di un professionista».
A meno che si appartenga alla categoria dei “fenomeni”. «In Italia ci sono tanti potenziali campioni, ma fenomeni non ne vedo. Quelli saranno 4-5 nel mondo: Ibrahimovic, Kakà, Messi e Cristiano Ronaldo. Balotelli? Oggi è un gran giocatore, ma per diventare un fenomeno deve migliorare, specie sul piano caratteriale. Forse l’unico che è sulla strada per diventarlo è Giuseppe Rossi, ma lui si è formato alla scuola del Manchester United...».
Sta confermando ancora la superiorità dei club inglesi? «Hanno vinto loro, ma Inter, Juve e Roma sono uscite a testa alta dalla Champions. La differenza l’hanno fatta le gare in Inghilterra: vincere in quegli stadi è sempre stato difficile e in questo momento è quasi impossibile».
È vero che perdiamo anche per colpa della troppa pressione mediatica? «I miei compagni che hanno giocato all’estero mi dicono che questa pressione esasperata è un problema solo italiano. Da noi in effetti le partite importanti, come un Roma-Juventus, cominciano 4 giorni prima e quando si arriva a disputare i 90 minuti in campo, a volte diventano quasi marginali».
La popolarità e un contratto fino al 2014 come l’hanno cambiata? «Io sono rimasto lo stesso. Vado tranquillamente al cinema con mia moglie e non mi capita ancora, come succede a Giovinco, di venire assalito dai tifosi ovunque mi trovi».
Tutto come prima, dunque, da un anno a questa parte? «No, nella mia vita le cose vanno più veloci che in campo. Ho sposato Roberta e a settembre arriverà anche il nostro primo bambino...».
Pare il ritratto di un calciatore anni ’70... «Io sono così. Credo nella famiglia, il valore più importante che condivido con Roberta e che mi hanno trasmesso i miei genitori, papà Stefano e mamma Anna. Mio padre è un punto di riferimento costante, ha sempre creduto nel mio sogno di diventare un calciatore e l’ha assecondato. Se fosse andata male? Mi sarei messo a fare impianti di riscaldamento insieme a lui».
Per il calcio però ha abbandonato gli studi. «Quando tre anni fa ho lasciato l’Istituto geometri mi sentivo in colpa e provavo anche un po’ di vergogna verso quei compagni che andavano alla maturità. Ero giù, poi mi sono venute in soccorso le parole di mio padre: “Una persona va pesata quando apre bocca...”. Allora ho cominciato a costruirmi una cultura parallela a quella scolastica. Leggo molto, mi tengo informato su tutto e ho iniziato a studiare l’inglese. Quando sarò più tranquillo prenderò anche il diploma».
Il calcio culturalmente cosa offre a un professionista? «Dà la possibilità di confrontarsi con ragazzi di culture e religioni diverse. Sono cattolico, ma provo lo stesso piacere nell’ascoltare Legrottaglie, quando parla del Dio cristiano, così come Sissoko che è di fede islamica. Il rispetto e la comprensione sono valori che ho dentro e che arrivano dalla mia famiglia».
Marchisio, per amicizia è anche molto vicino a chi soffre... «Da qualche anno frequento e faccio donazioni all’Istituto di ricerca e cura dei tumori di Candiolo. Sono entrato in contatto in seguito a un dramma: la morte del mio carissimo amico Davide Grandini, aveva 17 anni, giocava a calcio... Se l’è portato via un cancro al ginocchio».
Da un incubo a un altro sogno: pensa mai alla Nazionale maggiore? «Se Lippi un giorno mi chiamasse vorrebbe dire aver bruciato tutte le tappe. In questo momento punto a vincere l’europeo Under 21. A Pechino è andata male, niente podio olimpico e mi sono anche infortunato. Ora vorrei ripagare al meglio il ct Casiraghi».
Un altro ex bianconero, ma cos’è secondo lei lo stile Juve? «È qualcosa che ti entra dentro appena diventi un raccattapalle. Del Piero e tutti quelli della vecchia guardia trasmettono a noi giovani il peso storico e morale di questa maglia. Chi ha la fortuna di indossarla sa che è un ambasciatore che porta in giro per il mondo l’immagine di una società gloriosa».