Agorà

LE STORIE. Marcello Marchesi: l'ultimo dei battutisti

Massimiliano Castellani lunedì 2 aprile 2012
​«Mio papà, Marcello Marchesi, ha 64 anni e la mia mamma, Enrichetta, che poi sarebbe la sua metà, ne ha 32… Sembra un uomo preciso ed equilibrato. Ma non è così... Intanto il mio papà è un umorista che deve essere una cosa non tanto per la quale… A me nonostante tutte queste brutte cose, il mio papà mi sta simpatico». Questa è l’introduzione surreale di retrocoperta, che avrebbe dovuto scrivere Massimo Stefano Marchesi, un bambino poco più che in fasce, per il suo geniale papà che nel 1977, un anno prima di morire, dava alle stampe l’ultima raccolta di racconti, Sette zie (Rusconi). L’ennesima opera esilarante e lascito finale del principe degli umoristi o il massimo «sloganatore», come amava autodefinirsi, Marcello Marchesi. Forse uno dei rari autori a tutto tondo del nostro ’900 (insieme a Ennio Flaiano) che, con lo spirito di un Voltaire, ha compreso fino all’ultimo vitalissimo respiro che l’intelligenza va fatta sorridere e per questo ammetteva candido ed ilare: «Ogni nuovo libro danneggia quelli usciti. Che rimorso, rubare un solo lettore ai classici». Battutaro, battutista, semplicemente un autentico battitore libero. Un eclettico da 3D prima che fosse inventato, nato con il baffo, l’ombrello e la bombetta, stile british, cento anni fa – 4 aprile 1912 – a Milano. Da bambino si trasferì da uno zio a Roma, restandoci fino alla maggiore età. Tornato a Milano, prese una laurea in Giurisprudenza, da richiudere prontamente nel cassetto per assecondare la «malattia» di una creatività superba e mordace che Andrea Rizzoli, figlio del grande editore Angelo, fu il primo a diagnosticare una sera al Teatro Lirico, mettendolo subito sotto contratto per Il Bertoldo. Il settimanale (originariamente bisettimanale) antagonista del romano Marc’Aurelio, dove Marchesi aveva collaborato insieme a quello che sarebbe diventato il suo grande socio e mentore ispirativo, Vittorio Metz – al quale «diedi sempre del lei», ricordava.Rispetto e nobiltà di una premiata ditta, la Marchesi-Metz, che a partite dal 1939 con Imputato alzatevi, diretto dal dimenticato e altrettanto geniale ideatore del cinema dei telefoni bianchi, Mario Mattoli, sceneggerà almeno una sessantina di film, portando sul grande schermo i maggiori successi di Totò e di Macario. Un precursore assoluto, Marchesi, e il termine nel suo caso non è mai troppo abusato, anzi. A cominciare dalle sue trovate radiofoniche per la trasmissione Eiar Az Radioenciclopedia. Ed è davvero enciclopedico il novero degli attori ai quali a teatro (il suo primo amore), a partire dalla rivista mattoliana Za-bum, metterà in bocca i suoi testi folgoranti. Ugo Tognazzi, il prediletto Walter Chiari, ma anche Carlo Dapporto, Gino Bramieri, Tino Scotti, Wanda Osiris. Interi cast prendono a prestito la sua lucida visione epigrammatica di un’Italia in veloce evoluzione, seguita passo a passo da questo sciamano del pensiero leggero, eppure di fortissimo impatto mediatico. Dalla radio al teatro di rivista (antesignano ancora, negli anni ’50, del teatro-canzone con Controcorrente, monologhi alternati da brani musicali) al cinema, fino alla prima televisione. «Non è vero che tutto fa brodo», avrebbe fatto dire nello spazio nostalgico del vecchio Carosello (chi era bimbo ai tempi, ricorderà: subito dopo si andava di corsa a nanna).Con il semplice gigioneggiare della sua inesauribile fantasia coniava migliaia di slogan, diventati celeberrimi spot che hanno fatto la fortuna di pubblicitari e delle rispettive aziende committenti. «Falqui, basta la parola», o «Vecchia Romagna, il brandy che crea un’atmosfera» (tormentone recitato dalla voce suadente di Gino Cervi). E qui ci fermiamo, perché il catalogo è immenso. Come infinite sono le sue incursioni in una tv che tra i primi ha sperimentato come factotum. Così per un Paese che cominciava a darsi appuntamento nelle case dei pochi che disponevano del piccolo schermo da salotto, ecco che Marchesi diventò sinonimo di titoli immortali. L’amico del giaguaro, Ti conosco mascherina e Quelli della domenica, in cui il suo fiuto sempre attivo di talent scout lanciò allo sbaraglio un giovane Paolo Villaggio che destabilizzava il pubblico in sala con i personaggi di Kranz e il primo Fracchia. Da Corrado a Mike Bongiorno, fino a Maurizio Costanzo e Pippo Baudo, non c’è nessun volto televisivo nazionalpopolare che non abbia contratto un debito di riconoscenza nei confronti di questo irregolare della letteratura dell’intrattenimento. «Il signore di mezza età» non era solo una delle tante canzoni che si divertì a cantare (ha scritto testi di brani per De Sica, Morandi, Cochi e Renato, Jannacci e Loretta Goggi), ma anche il debutto come graffiante conduttore, affiancato da un debuttante Gianni Morandi attorniato dalle reginette dell’etere di allora, Sandra Mondaini, Monica Vitti e Lina Volonghi. Siamo nel ’63, mezzo secolo lontani dalla tv spazzatura imperante che Marchesi da Sadico del Villaggio avrebbe combattuto strenuamente a colpi di poetica della comunicazione, regalandoci magari altri titoli fulminanti, come quelli dei suoi libri Diario futile (Rizzoli), Essere o benessere (Rizzoli), Il Malloppo (Bompiani), quasi mai più ristampati (editori cosa aspettate?) e che ora si possono rintracciare solo su qualche bancarella antiquaria o acquistare fortunosamente al mercato virtuale di e-bay. Destino di «un talento dispersivo», come lo definiva il corrosivo e ipercritico Leo Longanesi. «Una pecora nera in un gregge di pecore bianche», il giudizio benevolo di Robero Gervaso su Marchesi che, al gong dei cinquanta, si sentì di colpo vecchio. Anche perché scoprì, «dalla cameriera», il tradimento di lungo corso della moglie che lasciò, insieme a una Mercedes con tanto di autista, per ricominciare daccapo, con una Fiat 500: di nuovo a Roma. «C’è chi si sente giovane perché in cinquant’anni non ha combinato niente e c’è chi si sente giovane perché tutto quello che ha combinato l’ha dimenticato. È il mio caso», disse. Ma l’uomo che «aveva fatto la guerra e l’aveva perduta» e che era riuscito come pochi altri a divertire e far sorridere le generazioni dei tre decenni postbellici, si rimise subito in gioco, diventando papà a 64 anni, per poi finire annegato (in poca acqua) a 66, nel golfo di Oristano. Da quel momento – era il 19 luglio 1978 – per il celebrificio di Stato, che non ha mai negato un serata di gala e tanto meno una fiction anche all’ultimo dei miei cani (battuta che magari gli sarebbe piaciuta), pur vivendo di rendita con la sua miniera di invenzioni, l’ha praticamente dimenticato. Del resto, il signore con il baffo, l’ombrello e la bombetta aveva previsto anche questo: «Se ritardo d’un paio d’ore succede la fine del mondo, se muoio non se ne accorge nessuno».