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Antropologia. In principio è il gesto: ritorna (finalmente) Marcel Jousse

Simone Paliaga venerdì 26 agosto 2022

Il gesuita francese Marcel Jousse

Figure erratiche costellano di tanto in tanto la storia del pensiero e delle idee. Le ricadute delle loro riflessioni hanno lasciato traccia presso allievi e ammiratori ma il loro ruolo è oramai quasi dimenticato. Se si aggiunge che in taluni casi, per scelta e convinzione, questi maestri occulti hanno lasciato ben poco o nulla per iscritto e hanno rifiutato un qualsiasi inquadramento disciplinare il gioco è fatto. La fama è eclissata alla pari della memoria della loro opera. È il caso del padre gesuita e antropologo sperimentale, come amava definirsi, Marcel Jousse di cui è appena uscito, dopo quarant’anni di assenza dalle librerie, a cura di Antonello Colimberti, presso l’editore Mimesis, L’antropologia del gesto (pagine 426, euro 32,00).

Ma di là dall’intreccio tra psicologia, antropologia, linguistica e pedagogia, l’influenza sotterranea del lavoro di ricerca di Jousse ben travalica i confini delle scienze umane. Mary e Padraic Colum, rispettivamente critica letteraria e poeta, riportano nel loro Our friend James Joyce come alla fine degli anni venti del Novecento, lo scrittore irlandese, nel corso del suo soggiorno parigino, avesse frequentato con assiduità i corsi tenuti da Jousse. Potrebbe essere, secondo taluni critici, questa la via da percorrere per scendere nei penetrali del Finnegans Wakedove Joyce non esita a evocare le “ joussture”. E cosa dire poi dell’idea avanzata da Stephan Dedalus intorno alle origini gestuali del linguaggio?

Ma l’influenza della riflessione del padre gesuita non si riduce solo all’infatuazione di uno scrittore. Se fosse stato così poco innovatore e privo di interesse a Michel de Certeau non sarebbe balenato alla mente di predisporre, nel 1965, alla facoltà di teologia dell’Institut catholique di Parigi, un corso interamente dedicato all’antropologo sperimentale. Né tanto meno di scrivere in una lettera che «sarebbe urgente la riedizione, in uno o due volumi, degli articoli di Jousse e la pubblicazione dei suoi corsi». E lo stesso vale per Walter Ong. Nel suo capolavoro Oralità e scrittura lo studioso si confronta con le tesi di Jousse, sottolineando come «abbia mostrato l’intimo legame esistente fra modelli ritmici orali, il processo respiratorio, i gesti e la simmetria bilaterale del corpo umano». Sullo stesso piano si muove il teologo Gaston Fessard che, già nel 1927, dedica all’antropologo uno studio intitolato Una nuova psicologia del linguaggio: lo stile orale in padre Marcel Jousse.

E solo per concludere il piccolo excursus, esso non è stato marginale nemmeno nelle riflessioni di Ivan Illich dedicate a descolarizzazione della società e alla lettura poi raccolte Nella vigna del testo. Lo stesso vale anche Roman Jakobson e Pëter Bogatyrëv, tra i maggiori rappresentanti del circolo di Praga, che insistono sul ruolo giocato da Jousse nel mettere in luce il ruolo giocato nella creazione letteraria folclorica da corporeità e gestualità. E potremmo proseguire in questa carrellata fino ad arrivare più vicino a noi, sfiorando le indagini evoluzionistiche e neuroscientifiche e in particolare quelle di Michael Corballis, che non ha difficoltà a riconoscere il coincidere di gesto e parola.

Già perché per Jousse in principio c’è proprio il gesto con le sue leggi. Infatti il nucleo principale di questa storia degli effetti del pensiero di un autore dimenticato, si trova proprio in L’antropologia del gesto, il libro postumo, non concluso ma completato, per la sopraggiun-ta scomparsa dell’autore avvenuta nel 1961 settantacinquenne, grazie all’intervento dell’omonima fondazione e soprattutto all’instancabile intraprendenza dell’allieva Gabrielle Baron. A lei si deve, nel corso del tempo, l’impegno a trascrivere parte degli oltre mille corsi che, durante la sua attività di insegnamento svoltasi tra il 1932 e il 1957, Jousse ha tenuto nell’aula Turgot della Sorbona, all’École des Hautes Études, all’École d’Anthropologie e presso il suo Laboratorio di Ritmo-pedagogia.

Per quanto Jousse sia stato allievo di Marcel Mauss e di Pierre Janet, abbia approfondito gli studi nelle lingue classiche, abbia fatto ricerche sul campo negli Stati Uniti presso i nativi delle Grandi Pianure, egli stesso riconosce che la sua autentica formazione sia avvenuta durante i primi anni di vita. Proveniente da una famiglia contadina e analfabeta, gran parte dell’intuizioni che hanno alimentato il suo pensiero, Jousse le ricava nelle cantilene, nelle filastrocche e nella recitazione a memoria dei Vangeli, che la madre gli ha elargito nel corso dell’infanzia.

Ritmo, dondolamento, imitazione sarebbero all’origine dei tre meccanismi che sono alla base dell’Anthropos: ritmo-mimismo, bilateralismo e formulismo. Per Jousse «l’uomo, mimatore per natura, si fa specchio delle interazioni della realtà circostante », riconoscendo il Cosmo come un incessante groviglio di gesti interazionali che lui accoglie, «rigioca» e dispone in successione dando origine anche al pensiero e alla Tradizione. È questa forza dell’Anthropos, misteriosa e irrefrenabile, che permette al bambino di ripetere spontaneamente i suoni, i movimenti, i gesti. E sono proprio questi a costituire il primum fondamentale dell’uomo, perché «prima di fabbricare degli attrezzi, prolungamenti dei suoi gesti, l’Anthropos plasma il proprio gesto».

Alla capacità mimica si aggiunge il bilateralismo, vale a dire il riconoscimento che «l’uomo divide il mondo secondo la sua struttura bilaterale: crea la destra e la sinistra, crea l’avanti e crea l’indietro, crea l’alto e crea il basso. Al centro c’è l’uomo che fa la separazione » e questo svolge un ruolo fondamentale nel processo di cristallizzazione del vivente, che sfocia nel formulismo. Con questa espressione Jousse individua la tendenza dell’Anthropos a stereotipare i gesti, grazie a cui si forma il legame tra le generazioni dando origine a mentalità e le culture. «Per tale motivo il formulismo è fonte di vita per un popolo quando dà origine a formule viventi, portatrici di realtà», ma quando esso si emancipa dalla concretezza viva e sfocia nel suo eccesso per “pigrizia” genera l’“algebrosi”, l’astrattezza, che finisce con il celare il vivente e la realtà all’Anthropos. Che così perde se stesso.