Anniversario. Manzi, il maestro che insegnò in tv a diventare italiani
Il maestro Alberto Manzi con gli alunni di una classe delle scuole elementari
Di andare in televisione non ne aveva avuto granché voglia; a fare un provino alla Rai lo spedì a fine ottobre il suo direttore didattico della scuola elementare “Fratelli Bandiera” di Roma dove insegnava, perché Rai e ministero della Pubblica Istruzione avevano deciso di mandare in onda una trasmissione per insegnare a leggere e scrivere agli adulti analfabeti, ma un maestro non l’avevano ancora trovato. Arrivato il suo turno, ormai a tarda sera, il maestro Manzi stracciò il copione della lezione sulla lettera “O” che doveva recitare e improvvisò a modo suo, muovendosi nello studio, parlando e disegnando su fogli di carta da pacco appesi al muro. Nessuno aveva pensato che non si poteva fare lezione in tv senza immagini in movimento, ma tutti ben presto tra direttori e ispettori vari capirono che quello era il maestro giusto. E un mese dopo, metà novembre 1960, partiva in diretta la prima puntata di Non è mai troppo tardi.
Al tempo gli italiani analfabeti erano ancora quasi quattro milioni, adulti e anziani rassegnati, difficilmente disponibili a tornare a scuola ma che, questa era la sfida, la televisione poteva agganciare. L’appuntamento con il maestro in tv alle 18, prima di cena, il martedì, il giovedì e il venerdì sarebbe durato otto anni; il risultato fu un programma invidiato e copiato all’estero, tanto che nel ’65 su indicazione dell’Unesco, ottenne il premio dell’Onu come uno dei programmi più significativi nella lotta contro l’analfabetismo. Un format di successo, la prima volta in Italia di un educational televisivo che scivolava nell’intrattenimento, apprezzato dagli adulti e non di meno da quella generazione di bambini che negli anni Sessanta cresceva con una tv ancora in bianco e nero e si appassionava alle lezioni di quel maestro che insegnava col sorriso e la voce calda mentre con mano veloce traduceva le parole in disegni stilizzati con il carboncino su grandi fogli bianchi.
Garbato e amabile nei modi e capace di un linguaggio pacato, tranquillizzante, semplice e chiaro, Alberto Manzi era non solo un maestro competente e straordinario che aveva trovato il registro giusto per parlare agli adulti, ma anche un conduttore che bucava il video. «Se stavo fermo 20 minuti a parlare – avrebbe spiegato – addormentavo tutti. La mia soluzione fu di disegnare: mi bastava schizzare qualcosa, meglio se incomprensibile all’inizio, per cui chi stava a guardare era incuriosito dal disegno che via via prendeva forma e nel frattempo seguiva il mio discorso». E sebbene non volle mai attribuirsi tutto il merito condividendolo con i maestri dislocati in duemila punti d’ascolto organizzati in tutto il Paese tra bar, parrocchie e centri sociali, è innegabile che le doti di comunicatore e il carisma personale di Manzi catalizzarono il pubblico e il risultato fu che un milione e mezzo di italiani presero la licenza elementare.
Certo la visibilità televisiva, di cui a tratti pativa la pesantezza, ha per certi versi appiattito la figura di Alberto Manzi sul successo di Non è mai troppo tardi, che è stato solo un pezzo del suo più ampio impegno in tv e una parentesi nei quarant’anni di insegnamento da maestro elementare cui è tornato, fino alla pensione nel 1988. Perciò a cento anni dalla nascita – il 3 novembre 1924 – rileggere l’ultima conversazione di Alberto Manzi con Roberto Farné, già professore di Didattica all’Università di Bologna – realizzata nel ‘97 e riprodotta integralmente nella nuova edizione ampliata del suo saggio Alberto Manzi. L’avventura di un maestro (Bologna University Press, pagine 196, euro 22,00) – consente di ricostruire attraverso la sua voce, un profilo più completo dell’uomo, dell’educatore colto e rigoroso, del comunicatore raffinato e dello scrittore, esponente di quella cultura pedagogica alta della seconda metà del ‘900 accanto a don Milani, Bruno Ciari, Danilo Dolci, Gianni Rodari, Mario Lodi, Loris Malaguzzi, tutti pressoché coetanei.
«Basta scavare nel ricco materiale dell’archivio donato dalla famiglia di Manzi, dopo la sua morte, all’Università di Bologna e conservato nel Centro Alberto Manzi, presso la Regione Emilia-Romagna – racconta Roberto Farné – per rendersi conto che ci troviamo di fronte a una delle figure più originali e significative della recente cultura pedagogica italiana. Fu esattamente questa l’impressione che io ne ebbi quando lo incontrai per una lunga intervista nel giugno del 1997: stavo studiando il ruolo della televisione educativa in Italia e Alberto Manzi era una delle mie fonti primarie». Un racconto che è la riprova di quanto il maestro sapesse incantare, con il suo carisma innato di comunicatore, chi lo ascoltava.
Sognava di diventare capitano di lungo corso, ma la vita lo ha portato altrove perché contemporaneamente all’istituto nautico, Manzi frequentava anche il magistrale che per i maschi era gratis. Controvoglia andò in guerra dove era nata l’idea di aiutare i ragazzi e rinnovare un po’ la scuola per cambiare certe cose che non gli piacevano. Poco più che ventiduenne nel ‘46, approdò al carcere minorile Aristide Gabelli di Roma a insegnare a 94 alunni dai 9 ai 17 anni, alcuni analfabeti, altri con la seconda liceo, e dove non c’erano penne, quaderni né libri e nessuno aveva voglia di studiare. Già qui si convinse che era necessario un modo nuovo di fare scuola. Dopo un mese di rifiuti e contrasti si guadagnò la possibilità di insegnare vincendo una scazzottata con il boss dei giovani detenuti. Quattro anni in Marina erano stati una palestra come si deve, ma quella fu una vittoria su tutti i fronti: insieme ai ragazzi organizzò un giornale, una recita e persino un campeggio.
Il mestiere di maestro, anche se all’università aveva studiato biologia, era ormai un destino: s’iscrisse a pedagogia e maestro fu, sempre animato dal desiderio di fare della scuola un luogo di ricerca, dove si aiuta a pensare, senza consegnare pensieri già fatti. Un maestro difficilmente incasellabile, «attentissimo – ricorda Roberto Farné – a non essere catturato e identificato all’interno di raggruppamenti rischiando di perdere quella libertà di non appartenere se non alla propria soggettività». «Quando Alberto ci raccontava di queste e altre esperienze, durante l’intervista – racconta – si coglieva nel tono e nel modo del suo narrare un senso di soddisfazione, e forse di orgoglio, nell’aver compiuto delle scelte rispondendo unicamente al principio della libertà della propria coscienza. L’impressione è che Alberto Manzi avesse un’avversione istintiva e razionale insieme, verso ogni forma di compromesso che rispondesse al criterio di semplificare la realtà, di risolvere i problemi attraverso le vie del facile accomodamento. Soprattutto è emerso con sempre maggiore chiarezza che il suo mettersi contro non era dettato da alcuna forma di protagonismo ma il risultato di un’obiezione di coscienza sul piano etico-pedagogico». È ciò che ha messo in atto con fermezza contro i voti nelle pagelle, che lo portò otto volte sotto il Consiglio di disciplina, e poi contro i giudizi delle schede di valutazione che gli valse più di una denuncia alla procura della Repubblica (con sospensione dello stipendio) e lo indusse a coniare quello slogan trionfo dell’ovvietà ma tecnicamente perfetto e incontestabile da replicare sulle schede con un timbro: “Fa quel che può, quel che non può, non fa”.