A volte i libri si nascondono in altri libri, così che il giusto valore rimane un po’ nell’ombra. È capitato anche ad uno dei maggiori scrittori italiani di oggi, Salvatore Mannuzzu, che quasi vent’anni fa, nel 1992, pubblicava una raccolta di racconti
La figlia perduta. In quella raccolta si celava in realtà, sotto forma di racconto, un sorprendente romanzo breve, che aveva il titolo di
Dedica. La singolarità è che sono state proprio le recensioni a mettere in luce la bellezza di quel piccolo testo. Su tutti ricordiamo le parole di Geno Pampaloni che lo definiva «un bellissimo racconto d’amore: illusione, desiderio, solitudine, rimorso vi si intrecciano una malinconica cadenza esistenziale».E non sprecava nel giudizio, definendolo «un memorabile racconto di cento pagine, così congeniale alla nostra letteratura, come ha capito Italo Calvino, e prima ancora teorizzato Leone Piccioni». Quella del romanzo breve è una delle tradizioni più felici della letteratura italiana tra fine Ottocento e inizi Novecento, non molto amata dagli editori che faticano a proporre "racconti", ma certamente ritornata ad essere feconda anche in questi ultimi anni con sorprese che arrivano da scrittori di generazioni diverse. Possiamo pensare a "Pugni", un esordio particolare e emozionate, di Pietro Grossi, ma anche al primo libro di Missiroli, "Senza coda", per non parlare della forza espressiva e morale de "Il peso della farfalla" di Erri De Luca.È un ritorno, premiato anche dai lettori, che rinnova una tradizione, nella quale, con onore, ora entra il racconto del 1992 di Salvatore Mannuzzu. Non si intitola più «Dedica», ma "La ragazza perduta", piccolo gioiello narrativo ed è in libreria in questi giorni pubblicato da Einaudi (pag. 132, euro 14,00). Ed è anche un nuovo libro che lo scrittore ha voluto tutto rivedere e riscrivere, cambiando il titolo, più adatto per il racconto e anni fa non utilizzato, visto che la raccolta, finalista al Premio Strega, già aveva il titolo simile de «La figlia perduta». Dice Mannuzzu: «Ho preso il testo pubblicato e l’ho sottoposto ad un vero e proprio lavoro di rielaborazione, durato moltissimo, tanto che ho consegnato all’editore il testo definitivo solo a dicembre, ritornandoci fino all’ultimo. Ogni parola è stata rimeditata, processata o anche accettata, sempre con un grande rispetto di quello che ero allora, vent’anni fa. Non è poco. Io sono diventato vecchio, sono cambiato anch’io. Sono diverso e diversa è la mia scrittura, restando però sempre fedele ad un canone di rispetto per quel dato di identità. È stato come un riaprire i giochi, non stravolgendo, con rispetto, come se quei "problemi" se li ponesse lo scrittore di allora».Si tratta di un libro "ritrovato" che ha riaperto, in Mannuzzu, la possibilità di ritornare a scrivere storie: «Pensavo di essermi stancato, che forse era giunto il momento in cui avrei smesso di scrivere. Infatti la mia letteratura non nasce a comando. Diventa possibile finché esistono due condizioni: la necessità e la sincerità. I fantasmi che sono dentro di me premono e vogliono che io li faccia uscire. Calarmi in quel racconto è stata una ricognizione di me stesso, attraverso i motivi di allora e quelli di oggi». Aggiunge: «Pampaloni, nella sua recensione ha detto una frase che mi ha molto colpito, citando alcune frasi della mia storia: "come se il soffio della vita non finisca mai" e conviva sommessamente con la disperazione per così dire cementata dall’accettazione, poiché "sempre si guarisce in qualche modo dalla vita". Era questo il punto di arrivo di allora, quando l’ho scritto per la prima volta. C’era questa presa d’atto che dalla vita si guarisce. Ora invece non credo più che dalla vita si possa guarire, soprattutto nel tempo che ci sta attorno. Non accetto la disperazione e trovo che oggi non sia più tempo d’elegia. Il nostro è un tempo di tragedia». Eppure Mannuzzu ha cominciato a scrivere un nuovo libro, anche se non sa se lo pubblicherà. È importante per lui solo questo essere ritornato a raccontare. «Non sarei arrivato a capire – dice – senza questo lungo viaggio dentro la vecchia storia. Ho percepito che non c’è discontinuità tra queste due fasi della mia vita. Non è stato solo un lavorare sulla parola, ma un’operazione partecipata, creativa e non solo per il testo, ma soprattutto dentro di me. Direi anche rivelatrice. Io scrivo per capire. Si tratta di un’operazione conoscitiva che ha una valenza etica, quella di rapportare quel che si individua a un metro morale. Adesso ho ricominciato a scrivere. Sono già avanti con il libro, ma non so che cosa ne sarà. Adesso mi basta questo. Non è la qualità estetica della pagina quella che perseguo».C’è questa eccezione del "perdersi" in questo racconto lungo, il fatto di sentirsi perduti. Mannuzzu spiega che i temi della sua narrativa sono quelli del peccato e della morte: «Il peccato rappresenta la perdita in un senso, la morte in un altro. Oggi non solo si è perso il senso del bene e del male, ma non conta più. Questo racconto mette a confronto un marito e una moglie, c’è il doppio sguardo tra chi si è e chi si è stati. Si guarda a questo grande cambiamento. È indicativo che nel racconto la moglie rifiuti, non riconosca la proposta di quel passato. Segnala che la ragazza è perduta in questa signora di sessant’anni. Non si riconosce più in quella donna giovane un po’ mitomane, che si inventa una vita che non è la sua». Scrivere per Mannuzzu non è un esercizio, ma una possibilità di vita, un’indagine interiore che lo porta a vivere dentro i suoi luoghi e i suoi personaggi: «Non mi impongo storie da raccontare. Sono scelto dalla storia: io sono il verbalizzante. Imparo dal racconto. La parola è di per sé creativa. Non è un’operazione esecutiva. Elsa Morante una volta aveva detto ad uno dei suoi amici: "Adesso ti lascio, vado via perché voglio sapere che cosa farà "Aracoeli", il protagonista del suo ultimo romanzo». Sono ricettivo rispetto alle esigenze della storia, sono loro, i personaggi, che comandano. Mi piace nominare le cose, con discrezione e misura, per far sì che le cose ci siano, si evochino da sé».