Idea l'a need: l’idea basta e avanza, per il resto ci si arrangia. Così si ragiona a Lagos, capitale della Nigeria. O, almeno, questa è la Lagos che Teju Cole descrive in
Ogni giorno è per il ladro (traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi, pagine 140, euro 16): una metropoli provvisoria, corrotta, attraversata da lancinanti rivelazioni poetiche. Questo è il suo primo romanzo, nato dalle parole e dalle immagini che l’autore aveva iniziato a pubblicare anni fa nel suo blog. Cole nel frattempo è diventato uno scrittore affermato, ha fatto incetta di premi con
Città aperta (edito anch’esso da Einaudi nel 2013), altro libro di ambientazione urbana, solo che questa volta la scena si trasferisce a New York, la città dove questo intellettuale irregolare e vivacissimo vive e lavora. Oltre che romanziere, infatti, Cole è storico dell’arte e fotografo. «Non mi separo mai dalla mia macchina fotografica - confessa tra un appuntamento e l’altro del Festivaletteratura-, la mia preoccupazione per le immagini è continua. Sulla scrittura, invece, mi concentro solo quand’è il momento di mettersi al lavoro». Il suo prossimo progetto,
Radio Lagos, riguarderà la nazione africana in cui è cresciuto. «Avere una doppia nazionalità ha i suoi vantaggi - scherza -, a differenza di voi italiani io ho due Paesi di cui lamentarmi…».
Che idea si è fatto di quello che sta accadendo in Nigeria? «Vede, gli scrittori amano molto i mostri creati dalla fantasia: è attraverso di essi, infatti, che la letteratura riesce a svolgere uno dei suoi compiti fondamentali, che è quello di esplorare il lato oscuro della nostra umanità. L’avanzata di Boko Haram, al contrario, è l’apparizione di un mostro reale, concreto, e questo atterrisce tutti, artisti compresi. Me ne sono reso conto quando ho provato a scrivere un articolo sull’argomento. All’inizio era un pezzo molto lungo, ma poi, a forza di tagliare, si è ridotto a quattro paragrafi».
Vuole provare a sintetizzarli ancora? «Boko Haram rappresenta la forma estrema del terrorismo fondamentalista. Per quanto spietate, formazioni come al Qaeda ed Hezbollah rispettano comunque una sorta di codice d’onore. Nel caso di Boko Haram, come in quello dell’Is, l’unico codice è costituito dalla morte e dall’odio per la vita. I rapimenti, gli attentati contro le chiese, le atrocità di cui siamo testimoni ogni giorno compongono un quadro agghiacciante, davanti al quale la stessa letteratura rischia di sentirsi impotente».
Perché? «Hollywood ci ha assuefatti allo schema per cui tutto può essere semplificato e rappresentato. C’è un film pronto per qualsiasi tragedia della Storia, si tratti della Shoah o della schiavitù negli Stati Uniti, ed è un film in cui non si risparmiano i particolari, in cui ogni sofferenza viene mostrata e amplificata. Il male più tremendo, però, è quello che rimane fuori scena, come ci ricorda, tra gli altri, il cineasta Michael Haneke. Boko Haram, oggi, è esattamente questo: un male tanto terribile da sfuggire alla nostra capacità di rappresentarlo».
È un allarme limitato alla Nigeria? «No, è l’intera situazione internazionale che, in questo momento, desta preoccupazione. Gli esseri umani, in definitiva, si assomigliano molto tra di loro: hanno gli stessi bisogni, condividono le medesime necessità vitali. Ma proprio da qui, purtroppo, derivano le divisioni più insanabili. Sono convinto che a fare la differenza non siano le fedi religiose o il colore della pelle. No, il discrimine è costituito dal benessere materiale, dalla ricchezza, dall’accesso alle risorse. Nel giro di qualche decennio potremmo trovarci davanti a una crisi globale, con i ricchi impegnati a difendere con qualsiasi mezzo la propria condizione e i poveri ugualmente determinati a usare la forza pur di impossessarsi dei beni essenziali di cui sono privi. Senza dimenticare che altri fenomeni, primo tra tutti il cambiamento climatico, potrebbero accelerare e rendere ancora più drammatica questa diseguaglianza. Lo ripeto: la vera divisione è questa, è questo il nemico da combattere. Il ricordo di quanto è accaduto un secolo fa in Europa, con lo scoppio della Prima guerra mondiale, dovrebbe metterci sull’avviso. Un conflitto di proporzioni planetarie rappresenta il peggior scenario immaginabile, un incubo dal quale preferiamo distogliere lo sguardo. Ma forse già adesso siamo sul filo del rasoio, e non ce ne rendiamo conto».
A proposito di globalizzazione: New York è ancora la capitale del mondo? «Certamente, almeno per quanto riguarda la cultura. Un artista può essere stimato in patria, ma se vuole farsi conoscere è a New York che deve andare».