Il cantautore. Maldestro e Gino Strada, il teatro anti-guerra
Il cantautore e attore teatrale Maldestro
Maldestro è un tipo anomalo, come il suo nome d’arte, un cantautore e un autore teatrale che ha fatto dell’impegno e della originalità la sua cifra. Sin da quando il grande pubblico lo conobbe nel 2017 sul palco di Sanremo, nella Sezione Nuove Proposte con la sua Canzone per Federica che sbancò (2° classificato, premio della critica Mia Martini, Jannacci e Lunezia). Antonio Prestieri, oggi 36enne, nato a Scampia, proveniente da un passato famigliare “difficile e doloroso” che ha raccontato nei suoi lavori teatrali di denuncia nei confronti della camorra, ritorna al primo amore, il teatro, con un lavoro dedicato a Gino Strada, il chirurgo fondatore di Emergency, Io non sono pacifista che ha debuttato il 23 dicembre scorso al Piccolo Bellini di Napoli per andare in tournée. Mentre ha appena suonato, in streaming, nella Notte di San Silvestro al Maschio Angioino con il progetto Passione - Next generation di John Turturro.
Maldestro, quanto ha influito la pandemia nella decisione di tornare a teatro?
La musica in questi anni mi ha levato tanto tempo, dandomi anche tante soddisfazioni. Ma il mio primo amore è il teatro. In questi due anni di stop ho riflettuto molto, e mi sono ripromesso di scrivere nuovi testi. Credo che il teatro abbia un ruolo fondamentale, qualunque genere porti in scena. Il teatro è un posto dove si possono raccontare storie importanti, quelle che lasciano al pubblico grandi domande. Io ho questa propensione al teatro civile perché credo molto nel racconto della realtà.
Come mai la decisione di mettere in scena la vita di Gino Strada? Il titolo arriva da una frase di Gino Strada: «Io non sono pacifista, io sono contro la guerra ». Quando è morto Strada ad agosto sono andato a leggere i suoi due libri. Conoscevo la realtà di Emergency, ma non conoscevo profondamente il suo pensiero. Sono rimasto folgorato. Leggere Strada è stato come leggere Terzani, sono quelle persone che ti cambiano il pensiero.
Come viene portata in scena una figura come la sua?
Sono andato a rivedere tutte le sue apparizioni tv, ed a lui è ispirato il protagonista del monologo di cui sono autore, attore e regista. Giovanni, napoletano, è l’alter ego di questo uomo straordinario che ha speso la sua vita per gli altri. In scena userò un pezzo di legno che diventerà una barca, una trincea, un rifugio. Giovanni è cresciuto in famiglia normale, con un padre molto presente, un professore. Un giorno vede un uomo a terra che sta male, lo aiuta, e capisce che la sua strada è quella di aiutare le persone. La prima parte vede i passaggi dell’infanzia, dell’adolescenza, del primo amore. Quindici anni dopo lo ritroviamo in mezzo al mare di Procida, le cui stelle sono la sua cura. E ripercorre la barbarie della guerra in sette deliri, passando da un Paese all’altro, Kurdistan, Afghanistan, Ruanda. Nell’epilogo lui si pone delle domande esistenziali: perché lo faccio? per egocentrismo?
Si tratta anche di una riflessione sulle responsabilità dell’Occidente?
Lui prima di partire pensava di stare dalla parte dei giusti, ma poi capisce che nella parte del suo mondo si costruiscono armi, si finanziano le guerre. Nel finale il pubblico entra nello spettacolo e non può uscire senza porsi una domanda. Il 90 per cento delle vittime di guerra sono civili. Ma noi consideriamo figli nostri solo le vittime delle Torri Gemelle, e non quelle delle bombe a Kabul. Spesso dimentichiamo che è solo un caso essere nati dall’altra parte del mare, aver vissuto nella terra fertile, nel pensiero libero.
In che rapporto sta questo lavoro con i suoi precedenti che denunciano la malavita?
Il potere non ha mai tollerato la verità sulle guerre. La gente comune considera tutti gli afghani come dei talebani, come si pensa che a Napoli tutti i napoletani siano camorristi, mentre la maggioranza è gente perbene. Quando ho scritto delle periferie di Napoli, ho raccontato la parte malata che c’è in tutte le grandi città. Ma ho voluto anche raccontare perché esiste il malessere, perché in quei posti cova la violenza: perché non ci sono le istituzioni, non c’è la cultura. Purtroppo il male affascina sempre. Pure io sono affascinato dal male, ma solo perché ho bisogno di capire il cervello di certe persone come funziona. Bisogna avere distacco nell’osservare il male, per non farsi coinvolgere.
Andrà in tournée nonostante le incertezze del periodo?
Il progetto è questo. E dovrò pure riprendere un altro spettacolo con cui debuttai nel gennaio 2020 e che era andato molto bene finché non hanno fatto chiudere di nuovo i teatri. Come neve sopra il mare è un racconto autobiografico. Racconto i miei nove anni, la scuola a Scampia insieme a due amici miei, di ciò che vedevamo, di come si è costretti a crescere presto in una realtà complicata. Racconto l’amore, le grandi scelte che hanno cambiato la vita. La prima parte è brillante e ironica, poi arrivano i cazzotti. Mia mamma lo ha sempre detto: «Nei tuoi spettacoli, prima si ride, poi si piange».
E la musica?
Ho scritto pochissime canzoni, mi sono gettato anima e corpo dentro al progetto teatrale. Però continuo a suonare nel progetto Passione - Next generation di John Turturro, che riprende il suo progetto sulla canzone napoletana con una nuova generazione di artisti. Siamo 8 cantanti e 6 musicisti, rivisitiamo al 90 per cento i classici napoletani, e per il 10 per cento i successi degli ultimi anni.