Fotografia. Una vibrante magnitudo di silenzio
Una foto esposta nella mostra "Sequenza sismica" al MaTa di Modena (© Tomoko Kikuchi)
C'è una magnitudo che misura non tanto l’intensità, ma il tempo e il suono del terremoto. Il boato, come il tuono di un temporale che accompagna il tremore, rompe e anticipa il silenzio. Il silenzio della pacifica quiete della vita che scorre e il silenzio della devastante desolazione delle macerie. Le sequenze sismiche sono in qualche modo le stesse. Senza differenze di latitudini e longitudini. Il terremoto è un dramma che non conosce nazionalità. È il simbolo di una fragilità che interessa tutti. Per questo è di struggente interesse la Sequenza sismica costruita fotograficamente negli spazi dell’ex Manifattura Tabacchi dalla Fondazione Fotografia Modena (a cura di Filippo Maggia e Teresa Serra, catalogo Skira). Una mostra di sette giovani fotografi internazionali, reduci da un periodo di lavoro in Emilia e nelle regioni del Centro Italia, alla ricerca di una via personale attraverso la quale raccontare i terremoti che hanno colpito il nostro Paese tra il 2009 e il 2016. Sette prospettive di lettura diverse, in novanta fotografie, che nell’insieme formano una visione mirata, lucida e chiara del fenomeno e di ciò che significa per l’uomo.
Naoki Ishikawa (Tokyo) inizia il suo racconto dal terremoto che l’11 marzo del 2011 colpì Tohoku, e che lo spinse a portare aiuti in «una città devastata»: «Sembrava che il tempo si fosse fermato: l’unica dimostrazione che quella scena era reale era data dalla neve che continuava a cadere senza tregua». Un giorno di sei anni dopo Naoki era nell’Italia centrale, davanti a sé la stessa visione: «Forse soltanto la fotografia è in grado di fissare quella scena che non riesco a descrivere a parole». Le sue foto mostrano in maniera schietta e onesta l’eloquente desolazione che penetrava il suo sguardo. C’è un altro terremoto anche nell’esperienza di un’altra giapponese che da anni vive e lavora a Pechino, Tomoko Kikuchi: è quello che ha devastato Chongqing. Lei ha scelto di sovrapporre gli scatti delle due tragedie ottenendo opere in bianco e nero di grande impatto emotivo e rappresentative del senso di fragilità e di insicurezza comune. Ci sono poi i bianchi e neri pungenti e nello stesso tempo meditativi dello svizzero di Losanna (ma da trent’anni a Londra) Olivier Richon e i paesaggi silenziosi della giovane islandese di Reykjavik, Hallgerður Hallgrímsdóttir: «Ho domandato del momento che ha cambiato tutto. Mi hanno raccontato cosa si prova a stare fermi lì in piedi per un’eternità mentre la polvere si deposita. Ho domandato del futuro. Mi hanno raccontato dell’attesa». E se Eleonora Quadri percorre un viaggio dettagliato fra luoghi sordi e laconici, Valentina Sommariva mostra le Cicatrici della terra e degli uomini, in una “fusione” fra scultura e immagini. La polacca di Kowary (anche lei ormai a Londra) Alicja Dobrucka, nella serie Damage, coglie e compone forme e geometrie precarie, sospese, fra la caduta definitiva o l’auspicata rinascita. «Credo che quello che stiamo facendo noi qui, proprio ora – o almeno quello che la fotografia in generale può fare – è dare vita a un documento che rappresenti quella che potrei chiamare “maschera della morte”», dice Dobrucka, convinta che «la fotografia sia una tra le più adeguate forme d’arte a raccontare il trauma», a fissarlo nella memoria, ad aiutarci a prenderne coscienza e quindi «a superarlo».
Lo testimonia in qualche modo anche una selezione di immagini storiche dei primi terremoti fotografati in Italia: se, infatti, il nostro Paese è sempre stato scosso da terremoti, meno noto è il rapporto che lega la fotografia del XIX e XX secolo alla rappresentazione e allo studio di questi eventi drammatici. Chiara Dall’Olio ha scelto quattro momenti simbolici: il terremoto del 16 dicembre 1857 in Val d’Agri con le fotografie di Alphonse Bernoud; il terremoto di Norcia del 22 agosto 1859, nelle fotografie di Robert MacPherson; il terremoto di Casamicciola (Ischia) del 28 luglio 1883, nelle immagini di un anonimo reporter, e il sisma di Messina del 1908, fotografato da Luca Comerio. Immagini storiche e tristemente attuali.
Le “vibrazioni” sonore che sin dall’inizio accompagnano il percorso espositivo si fanno più intense quando si arriva alla conclusione, di fronte al documentario Magnitudo di Daniele Ferrero e Roberto Rabitti, girato negli stessi luoghi visitati dai fotografi, in più momenti: immagini e suoni per riflettere sul tema cardine del tempo, della sua percezione straniata e distorta durante eventi traumatici come il terremoto. Nove “interminabili” minuti di “tremore” di fronte alle ferite di luoghi e città meravigliose che provano a ritrovare una nota di speranza, un raggio di sole, uno scatto di nuova vita.