Agorà

IL CASO. Magi, dalla Persia sfida all’impero

Roberto Beretta sabato 5 gennaio 2013
I magi venivano dall’Iran, forse portarono solo profumi e non oro, fecero paura ad Erode e soprattutto erano nemici dei Romani... La sintesi sarà brutale, e di sicuro non rende ragione all’accuratezza dell’analisi esposta nell’originale, però è efficace. E si può anche crederle, se la teoria è avanzata da un iranista professore all’università di Bologna, specialista in lingue e religioni dell’Iran preislamico nonché autore di vari studi sulla diffusione del cristianesimo in Asia centrale. Per questo il libro di Antonio Panaino I Magi e la loro stella (San Paolo, pp. 228, euro 17) si staglia con caratteri di affidabilità ma anche originalità rispetto ad altri studi non meno divulgativi usciti negli ultimi anni sul medesimo tema. Vediamone alcuni. I magi contro Roma <+tondo>Che cosa poteva pensare un uomo mediorientale del I secolo d.C. leggendo nel Vangelo di Matteo (l’unico che riporti l’episodio) la vicenda dei <+corsivo>magoi<+tondo>, i nostri "magi"? L’associazione più normale era quella con l’impero persiano, dove i magi costituivano il collegio sacerdotale massimo, una casta liturgica, forse addirittura una tribù "sacra" come quella ebraica di Levi. Per gli ebrei poi i persiani, soprattutto grazie al re Ciro che li liberò dalla prigionia mesopotamica, erano alleati e amici da secoli; la Bibbia attribuisce a quel sovrano il titolo addirittura di "messia" e i semiti godevano di ottimo status in Iran. Per di più i Parti, successori dei Persiani, in quel I secolo apparivano l’unica forza in grado di contrastare gli odiati Romani. Il messaggio di Matteo è dunque chiaro: come Ciro aveva liberato gli ebrei dalla schiavitù, così il Messia bambino (certificato dai sacerdoti del primo, appunto i magi) avrebbe salvato di nuovo il suo popolo. Chiarisce meglio Panaino: «All’epoca della composizione del Vangelo di Matteo, menzionare i magi significava per un pubblico ebraico relativamente ben informato evocare nel contempo il clero del mondo iranico, a partire da Ciro il Grande, unto del Signore, liberatore degli ebrei e ricostruttore del Tempio, sino a quello degli amici Parti, protettori della comunità ebraica di Babilonia e nemici dei Romani». Ma si tratta anche di un testo "missionario": nel brano degli <+corsivo>Atti degli Apostoli <+tondo>che descrive la discesa dello Spirito Santo i primi citati sono diversi popoli della zona iranica, e precisamente «Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia»... In effetti la prima comunità cristiana trovò terreno molto fertile in quella zona. «Il contesto in cui viene descritta la Pentecoste - nota Panaino - induce a pensare che ai primi evangelizzatori non fosse affatto sgradito avere a disposizione un messaggio speciale da usare in ambito iranico». Erode in versione "buonista"?Tutti conoscono il caratteraccio del sovrano, la sua ferocia e spietatezza. Però meno noto è il fatto che Erode fu grande nemico dei Parti, dovette rifugiarsi a Roma per sfuggire alla loro invasione e - quando tornò - divenne re di Giudea solo dopo averli sconfitti in alleanza coi Romani nel 37 a.C. Che cosa dunque doveva pensare quel sovrano - sottolinea Panaino - vedendosi arrivare fin sotto Gerusalemme una delegazione di magi iranici, ovvero emissari dei suoi peggiori nemici, e per di più annunzianti la venuta di un altro re? Come minimo avrebbe dovuto imprigionarli... Ma qui non interessa tanto la plausibilità storica dell’evento, bensì il suo significato simbolico: non è Erode, né sono i Parti, i veri sovrani a cui prostrarsi. Lo dichiarano col loro comportamento i magi stessi, esponenti di «uno dei pochissimi popoli - quello iranico - in attesa di un salvatore/rinnovatore del mondo (il cosiddetto <+corsivo>Saosyant<+tondo>), figlio di una vergine, risuscitatore dei morti»; dunque «a un lettore accorto sarebbe venuto spontaneo supporre che i magi fossero venuti a Betlemme non solo perché esperti di cose celesti, ma perché da secoli in attesa del loro Salvatore».
L’oro svalutato?Coloro che avrebbero sempre desiderato sapere che uso fece mai la Sacra Famiglia dell’oro ricevuto dai magi, avranno la loro soddisfazione: forse non era proprio metallo prezioso il dono che i messaggeri orientali portarono a Betlemme. Infatti il termine semitico che lo designa è lo stesso che indica anche il profumo: ipotesi che sarebbe assai più consonante con la tipologia merceologica degli altri due regali, incenso e mirra.
Il «miracolo» della stellaA parte la difficoltà di capire quale fosse il fenomeno celeste a cui si riferisce Matteo (per Panaino sono inverosimili le ipotesi cometa e supernova, ma anche quella oggi più accreditata, ovvero la congiunzione astrale), va sottolineato l’imbarazzo che un evento del genere suscitava nella cultura antica. Sotto due aspetti: anzitutto il sorgere della stella nella mentalità orientale (all’opposto di quella greco-romana) indicava un avvenimento nefasto o demoniaco, ma soprattutto il fatto di dar credito ai segni dello zodiaco era molto compromettente dal punto di vista cristiano. Non per nulla i Padri della Chiesa faranno a gara per confutare chi - sulla scorta dell’episodio dei magi - avrebbe potuto concludere che «l’astrologia fosse uno strumento efficace e veritiero di conoscenza, per giunta legittimato anche dalla nuova fede». Piero Crisologo, Leone Magno, Giovanni Crisostomo e lo stesso Agostino affrontarono varie volte il tema, all’epoca molto sentito, scegliendo per lo più l’interpretazione opposta alla scientifica attuale: la stella di Betlemme era cioè un evento celeste eccezionale, un "miracolo" e non una normale manifestazione astronomica, se non addirittura qualcosa di simbolico che soltanto i magi potevano vedere. L’esigenza odierna di storicizzazione del Vangelo non era affatto prioritaria, anzi: «Ai moderni interpreti, così concentrati nella risoluzione di arcani astronomici, la complessità storico-religiosa sfugge completamente a vantaggio di un interesse per aspetti sostanzialmente esteriori».