Agorà

INTERVISTA. Maggiani: «Il mio Caino necessario»

Alessandro Zaccuri venerdì 30 settembre 2011
Ci piacerebbe identificarci con Abele, certo. Ma la genealogia non lascia scampo: siamo discendenti di Caino. Della sua imperfezione, della sua colpa. «Sono d’accordo con san Paolo – spiega Maurizio Maggiani – e anche con Bakunin: l’uomo non è fatto bene, si porta addosso qualcosa di storto, una specie di zoppia». Basta una frase così per ritrovarsi nel mondo dello scrittore che, con romanzi come Il coraggio del pettirosso (vincitore di Viareggio e Campiello nel ’95) e Il viaggiatore notturno (premio Strega nel 2005), ha dato voce al versante più visionario e meno conosciuto della tradizione anarchica. Il che spiega come mai Maggiani sia uno degli autori convocati da "Torino Spiritualità" a meditare sugli aspetti decisivi della Genesi. Domani, sabato 1° ottobre alle 14.30, lo troveremo al Maneggio della Cavallerizza Reale, impegnato a spiegare perché il primo omicidio della storia sia stato appunto «il fratricidio necessario».Necessario? Questo significa che Caino non aveva scelta?«Significa che, se lo leggiamo senza pregiudizi, il racconto della Bibbia è terribilmente semplice e, nello stesso tempo, pressoché incredibile. Dio stesso sembra arrendersi all’ineluttabilità di quell’uccisione. Il famoso "nessuno tocchi Caino" non ha nulla di garantista, non è un motto pannelliano: è una constatazione, piuttosto. Dio riconosce la necessità di quanto è accaduto».Sì, ma che cosa è accaduto esattamente?«La nascita della storia, tutto qui. Abele, il pastore, è un uomo libero, solitario, non è difficile immaginarlo bello, lindo. C’è candore, in lui. Caino, al contrario, è il contadino, uno con la faccia sempre a terra. Si ammazza di lavoro, non può permettersi di vegliare per tutta la notte. Non ha tempo di riflettere, perché il riposo del corpo gli è indispensabile. Eppure è lui nostro padre. La storia e la scrittura della storia hanno inizio con l’insediamento agricolo: gli uomini si fermano, prendono dimora, fondano città».E nelle città non c’è posto per Abele?«Caino, il fondatore, deve uccidere Abele, il pastore ancestrale che rappresenta il suo passato, ciò che è stato e non può più essere. Ho l’impressione che il persistente odio nei confronti dei nomadi sia un retaggio di tutto questo. Sosteniamo di avere paura degli zingari, ma in realtà li invidiamo».Perché sono la discendenza di Abele?«No, Abele non ha discendenza. La storia vince, siamo costretti ad accorgercene ogni giorno. È questo, in fondo, che Dio accetta nel momento in cui segna Caino con il marchio della vergogna. Al di là di ogni convinzione religiosa, è la stessa vergogna che ci portiamo dentro e che avvertiamo quando restiamo soli con noi stessi. Siamo storti, zoppichiamo. Ogni tanto, però, Abele ci torna in mente e allora vorremmo che fosse andata altrimenti. Ma è impossibile, perché abbiamo coscienza di essere l’anello fragile dell’universo. Siamo quelli che hanno tradito, rappresentiamo un’asimmetria. Arranchiamo in attesa di redenzione».Ci stiamo spingendo nel territorio della fede?«Non ne faccio una questione di credenti o non credenti. Di consapevolezza della materia di cui siamo compost, semmai. Della mota su cui dobbiamo lavorare. Umanità Nova, del resto, è la testata di una storica rivista anarchica, perché è questo che desideriamo: rinascere, ritrovare la bellezza, essere redenti. Vorremmo tornare quello che per cui eravamo nati prima che Caino alzasse la mano su Abele e Abele, in modo misterioso, ricevesse quel colpo senza opporre resistenza. Non c’è lotta nel racconto della Genesi, lo ha notato?».Forse Abele riconosce la legge del più forte.«Ma anche Abele ha una sua forza, che si manifesta in noi come nostalgia, struggimento. Non sto parlando di virtù civili, sia chiaro. Mitezza e indulgenza discendono dalla memoria che ci portiamo dentro, ma non sono quella memoria. Abele sopravvive nel nostro sguardo o, meglio, nella nostra possibilità di decidere in quale direzione spostare lo sguardo. Mio nonno era un contadino, stirpe di Caino destinata a strusciare la faccia sui campi tutto il giorno, ferendosi e sporcandosi. Ogni mattina, però, apriva la porta della cucina e guardava verso la campagna, fissando lo sguardo sul filare della vigna. Il suo orizzonte era quello ed era un orizzonte di dignità e bellezza. Ecco, sono queste per me le parole di Abele: bellezza e dignità».Nonostante la vittoria di Caino?«Caino è pur sempre un uomo e nessun uomo è un animale, nessun uomo riesce ad arrendersi del tutto alla bruttura e alla violenza. Quando lo fa, si ammala e muore, condannandosi all’oblio. Questa, in definitiva, è la vera condanna: essere rifiutati dalla storia, dimenticati. Nei miei romanzi non c’è mai un vero "cattivo", perché per il malvagio la punizione suprema è l’essere ridotto al silenzio, relegato nella non-esistenza. Si tratta di un’idea espressa con parole straordinarie in un passaggio della Sapienza che mi sta particolarmente a cuore. Dio non ha creato la morte, si legge nella Bibbia: sono stati gli amici della morte a lasciarla entrare nelle case degli uomini. Lo hanno fatto allontanando da sé l’assoluto per cui erano nati, proprio come Caino ha eliminato Abele ed è diventato così costruttore di morte».