Idee. «Mafia, giù le mani dal Vangelo»
Narcos, un altare su cui svetta la statua della “Santa Muerte”
Oggi nell’Aula Magna “A. Quistelli” dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, viene insignito della laurea Honoris causa in Giurisprudenza. Nell’occasione il Cardinale terrà una lectio magistralis su «Diritto, religione, società». Anticipiamo dal testo la parte dove parla di «legalità e religione» con riferimento in particolare alle pratiche dei rappresentanti delle mafie.
Intendiamo col termine “legalità” l’osservanza delle leggi, un capitolo estremamente vario nelle sue applicazioni perché deve calibrare l’incontro tra l’oggettività della norma e la soggettività della coscienza e dell’adesione del singolo. Si tratta di un incrocio spesso arduo nella sua concretezza, come insegna il tema dell’obiezione di coscienza che non è possibile affrontare ora nelle sue molteplici sfumature e implicazioni. Noi ci accontentiamo, invece, di sviluppare la questione con una premessa di indole generale e con una successiva applicazione particolarmente grave e rilevante che attiene al sistema criminale alternativo alla legalità. La premessa punta al legame tra etica e legalità, considerato dal punto di vista della morale. Mentre è evidente che alcune norme giuridiche sono cogenti anche in sede etica, possono esserci di primo acchito imposizioni legali prive di impatto morale. Tuttavia, anche in questo settore si possono registrare esempi significativi che ripropongono quel vincolo. Facciamo un paio di esempi. Pensiamo innanzitutto al codice della strada che, a una prima impressione, può apparire solo come un regolamento legale asettico, apparentemente estraneo al dominio morale. Ma come non vedervi in azione anche una delle virtù cardinali, la prudenza? Una sua violazione grave, che conduce al cosiddetto “omicidio stradale”, rivela chiaramente che l’osservanza di quelle regole ha un rilievo non solo penale ma anche morale. Ancor più emblematico è il secondo esempio che suggeriamo, quello riguardante il sistema fiscale. Esso può sembrare solo una struttura politico-gestionale della cosa pubblica. Si tratta, invece, di una realtà che è finalizzata al bene comune e, come tale, ha implicazioni etiche. Non era, perciò, corretta una prassi spesso in passato sostenuta anche in ambito teologico secondo la quale l’evasione o l’elusione fiscale era considerata merepoenalis, cioè un’imposizione che ricadeva soltanto sotto il regime della punizione legale e non aveva ridondanza morale. Si è, così, creato indirettamente anche quello scarso senso dello Stato, tipico di alcuni paesi a matrice cattolica.
Certo da un lato, la corruzione politica cade già evidentemente sotto il marchio non solo della penalità ma anche della moralità. D’altro lato, però, essa non può costituire un alibi per l’evasione fiscale. L’osservanza delle norme tributarie è da san Paolo esaltata in modo netto e in chiave morale-religiosa nel paragrafo già citato della Lettera ai Romani (13,1-7), tanto che egli giunge al punto di affermare: «Pagate le tasse: quelli che sono incaricati dell’esazione sono al servizio di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, versate le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto» (13,6-7). Non si dimentichi che allora a capo dell’impero romano c’era Nerone. Affermato il legame dell’etica col diritto attraverso i due esempi appena indicati, ora possiamo allargare la nostra considerazione su una grave questione spinosa, la coesistenza serena e persino codificata tra sacro e criminalità, una contiguità che trasforma la religione in un sostegno paradossale per giustificare l’illegalità e il delitto. In questo ambito svetta la realtà mafiosa, studiata secondo tale prospettiva da vari saggi, tra i quali spiccano quelli di Alessandra Dino, La mafia devota. La Chiesa, la religiosità, Cosa Nostra e di Salvo Palazzolo e Michele Prestipino, Il codice Provenzano. Siamo in presenza di un fenomeno registrato già dai profeti biblici che lo condannavano con veemenza. Lapidaria è, al riguardo, una frase che Isaia mette in bocca a Dio: «Non posso sopportare delitto e solennità» (1,13). E il discorso divino proclamato dal profeta è molto articolato, giungendo al punto di denunciare come farsa sgradevole la ritualità del criminale, la sua preghiera ipocrita, le sue false devozioni, perché ben altro è il culto che Dio si attende: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia» (1,16-17).
La religiosità dei mafiosi ignora questo che è il cuore della vera fede e, senza imbarazzo – come ricorda il citato magistrato Prestipino, che del tema è un grande esperto (potremmo dire in corpore vili) – si giunge al paradosso per cui «un killer di Cosa nostra, ogni volta che gli ordinavano di commettere un omicidio, prima si recava in Chiesa e pregava s. Rosalia perché lo proteggesse e perché l’azione andasse a buon fine e, dopo averla commessa, tornava dalla santa per ringraziarla del buon esito dell’azione ». Queste degenerazioni blasfeme e idolatriche si sono trasformate in un vero e proprio culto perverso tra i “narcos” del Messico con la venerazione della “Santa Muerte”, modellato sulla popolare Vergine di Guadalupe. Da noi le esemplificazioni sono più immediate, come attestano i “pizzini” religiosi ( sic!) di Bernardo Provenzano che citavano ininterrottamente Dio, Gesù Cristo e la divina Provvidenza o come si scopre attraverso gli altarini, i vari santini, persino le Bibbie e i testi spirituali, i libri di preghiere ritrovati nei covi o nei bunker dei mafiosi. In realtà si tratta di una deformazione religiosa in cui la Chiesa deve ora porsi – e lo fa anche sotto lo stimolo delle staffilate di Giovanni Paolo II o di papa Francesco e delle testimonianze di figure come il beato don Pino Puglisi – in antitesi assoluta a questa che è in realtà irreligiosità e ipocrisia blasfema, divenendo una costante spina nel fianco di ogni forma mafiosa. Questa scelta può essere anche una catarsi per certe connivenze del passato quando alcuni pastori in anni di guida di una diocesi o parrocchia non osavano pronunciare mai la parola “mafia” o “’ndrangheta” o “camorra”, oppure quando parroci, come ricordava Alessandra Dino nel suo saggio, ai funerali di un capo-mafia non esitavano ad appellare alla «giustizia divina, la sola che non sbaglia e alla quale nessuno può sottrarsi e raccontare il falso, mentre quella terrena può commettere grandi errori». Come ha sottolineato il noto magistrato Giuseppe Pignatone, la religiosità mafiosa sfrutta «il legame esistente tra la Chiesa e larghi strati delle popolazioni dell’Italia meridionale » adottandolo come «sovrastruttura permanente attraverso cui camuffare la reale essenza dell’organizzazione» basata sulla violenza, l’ingiustizia, l’illegalità, ossia sull’esatto opposto dell’autentica fede.
Meritano, perciò, di essere segnalati gli inequivocabili appelli e giudizi che il magistero ecclesiale più alto ha moltiplicato in questi ultimi decenni, a partire dalle ormai famose parole di san Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 ad Agrigento: «La nostra fede esige una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità della persona e della convivenza civile». Nel 2010 erano, invece, i vescovi italiani a «condannare con forza una delle piaghe più profonde e durature del Mezzogiorno, un vero e proprio cancro, una tessitura malefica... Le mafie sono la configurazione più drammatica del 'male' e del “peccato”».
Nello stesso anno, il 3 ottobre 2010, a Palermo era Benedetto XVI a sollecitare i giovani a «non cedere alle suggestioni della mafia che è una strada di morte, incompatibile col Vangelo». Un monito che papa Francesco ha ribadito con sdegno a Napoli, nel quartiere emblematico di Scampia il 21 marzo 2015, ricorrendo a quell’inedito termine secondo il quale «la corruzione spuzza», evocando quindi non solo il fetore del sangue versato ma anche il tanfo morale che avvolge quella struttura perversa. Ed è dei nostri giorni l’impegno comune di Chiesa e Stato con tutti i loro organi istituzionali – soprattutto nella regione calabrese –- per erigere una barriera contro la violenza mafiosa, togliendole gli alibi religiosi delle processioni e dei santuari (Polsi ne è un’attestazione esplicita).