Prima alla Scala. Il maestro Chailly: «Soffro con Butterfly»
Il maestro Chailly
Il rischio, assicura Riccardo Chailly, «è di non riuscire ad andare avanti con lo spettacolo, sopraffatti dall’emozione. Troppo dolore nella musica. Dolore che avverto quando dirigo, quasi una sensazione fisica». Stasera Madama Butterflydi Giacomo Puccini apre la nuova stagione del Teatro alla Scala. Sul podio il direttore d’orchestra milanese che ha messo sul leggio la versione originale della partitura, quella che debuttò proprio alla Scala il 17 febbraio 1904. Ma che fu un insuccesso. «Troppo moderna – racconta il musicista – per essere davvero compresa. Una versione ancora più dura e ruvida di quella che siamo abituati ad ascoltare. Più carica di sofferenza».
Come pensa di riuscire, maestro Chailly, a non commuoversi?
«Con Puccini c’è sempre un coinvolgimento viscerale che spesso mi fa dire: riuscirò ad arrivare all’ultima battuta? Mi capita con Bohème. Succede con Butterfly, opera che dirigo da quando avevo 21 anni. Ma ogni volta scopro cose nuove e che mi toccano nel profondo. L’ho constatato in questo mese di prove. Ogni volta che siamo arrivati all’Interludio sinfonico che precede la drammatica scena finale con il suicidio di Cio Cio San ho avvertito un pugno nello stomaco mentre in orchestra serpeggiava un’emozione autentica, come una sospensione da tutto perché in quel passaggio c’è qualcosa di trascendente che supera noi stessi, uno di quei momenti in cui la forza della musica ci stacca da tutto. Puccini ha la capacità di far sentire a tutti noi il suo dolore, ma ha anche uno sguardo di pietà per i suoi personaggi che toccano la parte più profonda e recondita di noi e parlano alla nostra vita».
La storia della ragazza costretta dalla miseria a fare la geisha, tradita dal (finto) marito è drammaticamente attuale. Per questo ha scelto Madama Butterfly per inaugurare la nuova stagione scaligera?
«L’ho fatto perché erano trentatré anni che un titolo di Puccini non era in cartellone il 7 dicembre: non accadeva dalla Turandot del 1983, troppo. Poi, certo, la storia inevitabilmente ci fa pensare al nostro oggi. Non serve aggiungere altro rispetto a ciò che c’è già nella musica. La regia di Alvis Hermanis è fedele a quello che Puccini voleva, il Giappone del 1904, tanto più che il libretto, tratto da un dramma di Belasco, è una storia vera: Pinkerton è realmente esistito, lo dicono documenti che abbiamo rintracciato nel lavoro di ricostruzione della partitura».
Avere sul leggio la versione originale dell’opera, fischiata al debutto, è anche un modo per rendere giustizia a Puccini?
«Era doveroso. Il musicista da allora non propose mai più una sua novità alla Scala. Mise mano più volte a Butterfly, ma secondo molti musicologi questa è la versione che rispecchia maggiormente l’idea di Puccini. Julian Smith ha fatto un lungo lavoro di ricostruzione per Ricordi che ha portato a rintracciare molte battute inedite. È stato come ricostruire un mosaico nel quale erano presenti zone grigie: abbiamo ritrovato le tessere mancanti e le abbiamo ricollocate al loro posto. E tutto ha funzionato alla perfezione, perché le scene tagliate erano funzionali al racconto e allo sviluppo musicale del dramma: la canzone comica di Yakusidé che rende ancora più tetra la maledizione dello zio Bonzo e un drammatico dialogo tra Butterfly e Kate, la nuova moglie di Pinkerton, personaggio che esce ancora più cinico e codardo. Sarà la Butterfly che voleva Puccini. Moderna, forse fin troppo per l’epoca in cui fui scritta. Tanto che non venne compresa».
Cosa non funzionò?
«Forse la struttura, divisa in due parti, con un lungo secondo atto di un’ora e mezza. Stasera la riproporremo in questa forma, per non interrompere il precipitare degli eventi verso la tragedia. Puccini stravolgendo gli schemi cui il pubblico era abituato, aveva concepito un’opera con una concisione del dramma assoluta, tutta pervasa da una tensione in avanti, da una ricerca del nuovo. In Butterfly c’è l’Europa musicale di inizio Novecento, Richard Strauss e Schönberg. Ci sono azzardi armonici fatti di una semplicità disarmante che fanno pensare a Debussy. Credo in questa versione e sono convinto che sia importante farla conoscere».
Alla Scala ha iniziato un percorso di riscoperta delle versioni originali delle opere di Puccini: Butterfly arriva dopo Turandot e Fanciulla del West. Quale, invece, la prossima tappa?
«Se troviamo il cast giusto potrebbe essere Manon Lescaut. Proporremo l’edizione andata in scena nel 1893 al Regio di Torino e mai più eseguita se non una volta da me, nel 2005, all’Opera di Lipsia. La grande difficoltà del finale del primo atto convinse Puccini a metterci mano».
Il 1° gennaio, smessi i panni di direttore principale, assumerà la carica di direttore musicale della Scala. La Butterfly segna questo passaggio.
«In realtà non lo avverto in modo particolare perché già da due anni lavoro a pieno ritmo in teatro, impegnato sul podio, ma anche sul fronte delle audizioni per gli orchestrali e i cantanti. Il progetto Puccini è il filo conduttore operistico di questi anni mentre per la sinfonica abbiamo iniziato percorsi dedicati a Brahms e Šostakovic. Ci sono poi le tournéeinternazionali e i progetti discografici, tengo in particolare a quello su Cherubini che mi ha portato a incidere otto Marce religiose in prima esecuzione assoluta».
Sui teatri lirici italiani pende un decreto del governo che prevede ingenti tagli. Lei ha sempre affermato con forza l’importanza che tutti, a iniziare dallo Stato, sostengano la cultura.
«Una battaglia di civiltà che, se vivessimo in un mondo perfetto, non dovrebbe esistere, perché non si dovrebbe combattere per affermare il valore della cultura, dovrebbero capirlo tutti e farne un fondamento della società. L’Italia, anche attraverso le dirette tv e radio di Butterfly, si identifica in ciò che avviene oggi alla Scala, un momento che non è assolutamente mondano, ma è un ritrovarsi intorno alla musica e alle nostre radici per dire quanto sono importanti. Ecco perché essere sul podio oggi è sicuramente un motivo di orgoglio, ma anche una responsabilità enorme».