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TENDENZE. Maestra, mi legge l’encefalogramma?

Andrea Lavazza martedì 17 aprile 2012
​Quale insegnante non avrà pensato, pur bonariamente, di qualche suo allievo distratto o riottoso: «Che cosa avrà nella testa?». Un’affermazione che presa alla lettera, nell’era delle neuroscienze, ha fatto ipotizzare a qualcuno foschi scenari di esami cerebrali alla ricerca di inclinazioni particolari, in modo che sia possibile avviare a studi specifici solo coloro che diano garanzie di successo ed escludendo a priori i meno dotati. Nulla di tutto questo annuncia invece quel nascente (e promettente) ambito di studi chiamato da alcuni «neuroeducazione». Anzi, dalle più recenti acquisizioni di laboratorio esso trae molte conferme ad antiche intuizioni e qualche percorso per innovare didattica scolastica e allevamento della prole, in un equilibrio che sfugge sia alla neuromania imperante sia alla neurofobia di ritorno. Almeno questo è l’approccio di alcuni recentissimi studi, convergenti nel valorizzare, secondo profili diversi, le ricadute educative delle conoscenze neuroscientifiche. Il punto forse unificante è dato dal ruolo delle emozioni, rivalutate quale elemento centrale e positivo del percorso esistenziale, e non più relegate a fattore perturbante della razionalità, quindi da mettere a tacere o imbrigliare drasticamente. Non che si riscopra una pedagogia permissivista, che consente al bambino/ragazzo di dare libero sfogo a impulsi e passioni, bensì si raccomanda di considerarne la funzione di guida e di stimolo nei processi di attenzione, apprendimento e scelta. Cominciano a essere noti anche ai non specialisti gli studi di Antonio Damasio, pioniere nel segnalare come un danno ai centri delle emozioni possa rendere un individuo incapace di decidere tra le più banali alternative: l’intelligenza più fredda e calcolatrice ci condannerebbe a morire di fame come l’asino di Buridano, fatalmente indecisi tra una pizza margherita e una capricciosa. Muove da qui la ricca e partecipe ricognizione di Milena Santerini, docente di Pedagogia generale all’Università Cattolica (Educazione morale e neuroscienze, La Scuola, pp. 190, euro 17,50), focalizzata sulla necessità di una più sofisticata cura degli affetti nei giovani. Ad esempio, i dati che indicano nella prosocialità un carattere innato e diffuso e l’empatia come un sentimento favorito dai meccanismi dei neuroni specchio (che ci permettono di sperimentare direttamente le sensazioni altrui) favoriscono un approccio educativo che faccia leva sulla spontaneità per accompagnarla e renderla non una reazione immediata e transitoria ma un <+corsivo>habitus<+tondo> radicato. Anzi, secondo l’autrice, è lecito interpretare le tendenze altruistiche che la scienza evidenzia come un corrispettivo della legge naturale che possiamo riconoscere in noi. Su un altro versante, la lettura neurobiologica dell’adolescenza, come fase di «potatura» e riorganizzazione delle connessioni sinaptiche e di minore controllo da parte dei lobi frontali dei comportamenti latamente esplorativi (e quindi rischiosi) non è allora senza conseguenze. Può – scrive Santerini – fare «rileggere la transizione dalla "soddisfazione viscerale, istintiva dei desideri" a un "approccio più intellettuale, ponderato e pianificato" non come un’anomalia o una scelta intenzionale ma come una caratteristica legata alle trasformazioni neuronali», può pertanto contribuire a fare «ascoltare i giovani nella loro realtà e non secondo l’immagine che ci facciamo di loro». A confermare come un resoconto sistematico e aggiornato delle competenze e dei "valori" dei bambini possa essere utile per promuovere e sostenere abilità in fieri arriva un volume innovativo, rigoroso (e più tecnico, basato com’è sulla psicologia sperimentale) ad opera di Antonella Marchetti e Ilaria Castelli, rispettivamente professore ordinario e ricercatore di Psicologia dello sviluppo all’Università Cattolica (Come decidono i bambini, Raffaello Cortina, pp. 232, euro 21). Le autrici, ordinando una grande mole di ricerche, evidenziano come il modello di homo oeconomicus, razionale e prevedibile, risulti sempre più inadeguato nel rendere conto dei comportamenti sociali. Se si può dire che i piccoli siano in genere altruisti, fiduciosi, cooperativi, sensibili all’equità degli scambi, al di là delle influenze educative o culturali, la variabilità e la dipendenza dal contesto rimangono dimensioni ineliminabili. Tra gli elementi più interessanti analizzati da Marchetti e Castelli c’è il fattore tempo nelle scelte, tra cui la capacità di differire le gratificazioni, che negli adulti ha poi a che fare con le incoerenze tipiche di chi programma una dieta dimagrante e poi al secondo giorno mangia mezza torta alla panna. Gli studi pionieristici di Walter Mischel hanno indicato infatti che i bambini che riescono più facilmente a rinunciare a una caramella subito per due dopo alcuni minuti avranno in media molto più successo professionale e meno problemi con la giustizia. Ce n’è abbastanza perché si traggano alcune – significative ma non rivoluzionarie – indicazioni operative a beneficio degli insegnanti. E questa è anche la tesi di Pier Cesare Rivoltella, docente di Didattica e tecnologie dell’istruzione all’Università Cattolica, nel suo informato e argomentatamente propositivo Neurodidattica (Raffaello Cortina, pp. 172, euro 16). Il percorso offerto, mostrando come l’apprendimento abbia un profondo radicamento biologico (emotivo, legato al corpo e ai suoi stati) e basandosi su plasticità del cervello, dimensione imitativa connessa ai neuroni specchio e teorie della visione, approda a definire la didattica come «tecnologia della parola e della cultura», che si declina come «tecnologia della performance» e «allo stesso titolo del teatro come una tecnologia dello sguardo». La didattica è teatro perché utilizza la predisposizione drammaturgica degli elementi che costituiscono la performance: attore, spettatore, luogo, tempo e testo. Uno strumento antico, quindi, ripreso e valorizzato con conoscenze e competenze nuove, in un mondo complesso, ricchissimo di stimoli percettivi e cognitivi e caratterizzato dalla molteplicità dei linguaggi. Un mondo nel quale, sostiene Rivoltella, non sembra «possibile pensare a una didattica se non anche nei termini di una "neurodidattica"». Un campo è ormai aperto, ma ancora molto c’è da studiare e sperimentare, senza facili entusiasmi né immotivati timori.