Agorà

Archeologia. Giordania, nel mosaico di Madaba c’è tutta la terra biblica

Marco Roncalli martedì 8 aprile 2025
La valle del Giordano nel mosaico noto come la “Carta di Madaba” con le annotazioni di Basema Hamarneh nel libro “La carta di Madaba. Guida alla (ri)scoperta di un monumento unico”

La valle del Giordano nel mosaico noto come la “Carta di Madaba” con le annotazioni di Basema Hamarneh nel libro “La carta di Madaba. Guida alla (ri)scoperta di un monumento unico”

È un prologo interessante quello che precede la scoperta del pavimento musivo noto come la “Carta di Madaba”, opera realizzata attorno alla metà del VI secolo, di valore inestimabile non solo come testimonianza artistica, ma anche per la topografia storica della Terra Santa e dei luoghi che videro la nascita del cristianesimo. Una “mappa” di circa sedici di larghezza per sei di altezza, oggi incompleta, ma pur sempre con circa centocinquanta vignette di località in gran parte identificate, con Gerusalemme centro fisico e figurativo di una composizione “realistica” dove si distinguono luoghi rilevanti o minori (simboleggiati da porte fiancheggiate da torri), chiese (a indicare villaggi o santuari,) ma pure corsi d’acqua e strade, mare e monti, oasi segnalate da palme e sorgenti, punti di guado del Giordano (identificabili da traghetti pensili), cervi e pesci, e persino un paio di navi (a ricordarci che allora il Mar Morto era navigabile): tutto su una superficie estesa dall’altezza di Tiro e Sidone a nord, fino al Delta egiziano a sud e dal Mediterraneo al deserto. A non dimenticare le tappe meno note che portarono a svelare questo famoso tesoro per secoli sepolto dalla terra a circa trenta chilometri da Amman, è Basema Hamarneh che le ripercorre nel libro La carta di Madaba. Guida alla (ri)scoperta di un monumento unico, con prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi (che proponiamo in questa pagina) e due testi di Fabio Sbaraglia e Maria Grazia Marini (Edizioni del Girasole, pagine 144, euro 15,00). L’autrice ne offre un racconto accurato insieme ad una sintesi delle vicende attraversate dalla città giordana in epoca preclassica, ellenistica, nabatea, romana e bizantina, proponendo poi una guida illustrata del monumento che l’ha resa celebre. Ordinario di archeologia tardoantica e paleocristiana all’Università di Vienna, già allieva del compianto padre Michele Piccirillo con il quale ha collaborato in diverse missioni scientifiche nel Regno Hashemita dove oggi sovrintende a scavi archeologici e progetti di ricerca , Hamarneh, ricorda infatti come la “chiesa della Carta”, fosse stata identificata prima della scoperta di tutto il mosaico e della successiva diffusione della notizia. L’area, infatti, disabitata, era stata scelta all’inizio del 1880 come luogo adatto per l’insediamento di un’ottantina di famiglie cristiane costrette ad abbandonare la loro città natale -Karak- a causa di una faida tribale. Ad esse - cattoliche- si erano uniti altri due clan famigliari greco-ortodossi. Questo grazie all’interessamento del Patriarcato latino (sotto protezione della Francia) e, soprattutto della Sublime Porta (essendo in quel periodo Palestina e Transgiordania sotto l’Impero Ottomano). Assegnata una precisa zona alla piccola comunità greco-ortodossa, la necessità di costruire una chiesa là dove ne esistesse una precedente e non ex novo (come prevedeva l’accordo tra il Sultano Suleiman e il Patriarca di Gerusalemme del XVI secolo ancor vigente), portò a iniziare i lavori nel 1894 sui ruderi di un’antica chiesa dedicata a San Giorgio, devastata da un terremoto nel 746 . Tra i resti di questo edificio dotato di abside, dieci anni prima, nel 1884, tale Arkadio, parroco della comunità greco-ortodossa lì stabilitasi, aveva già segnalato la presenza di frammenti di pavimento musivo al Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, Nicodemo, non ottenendo però risposta. In seguito, ultimati gli interventi di muratura e copertura, quelli successivi sulla pavimentazione portarono in luce altre parti del mosaico, nuovamente segnalato al Patriarcato. Che, questa volta per ordine del nuovo patriarca Gerasimo, inviò a seguire i lavori il diacono bibliotecario Kleofa Kikilides. Lui, la mattina del 13 dicembre 1898, rimossa completamente la terra che copriva il pavimento, a comprendere che le tessere policrome sotto i suoi occhi – oltre due milioni- presentavano la mappa geografica della terra biblica , con la Palestina e il Basso Egitto, com’erano in età bizantina, e, di lì a poco, a dedicarvi un opuscolo curato da padre Girolamo Golubovich.Ben presto, poi, ecco apparire gli studi dei domenicani dell’École Biblique - da Marie Joseph Lagrange a Louis-Hugues Vincent - nonché i lavori fotografici dell’ assunzionista Joseph Germer-Durand. Mentre ormai la scoperta della “Carta” iniziava ad avere quella risonanza che ha favorito ulteriori ricerche e ritrovamenti (fatti conoscere anche in una memorabile mostra al Castello di Malpaga vicino Bergamo nel 1991), consentendo a padre Piccirillo di coniare l’espressione “Scuola musiva di Madaba”. E a farla “rinascere” come istituto d’arte e restauri con lo stesso nome sotto il patrocinio del Ministero del Turismo e delle Antichità, progetto unico nel suo genere in tutto il Medio Oriente. Donando, al contempo, notorietà mondiale a questo luogo, la cui municipalità di recente ha stabilito una collaborazione con quella di Ravenna, dove, dello stesso periodo sono i cicli musivi parietali di San Vitale e di Sant’Apollinare in Classe. Nel segno del mosaico le due città hanno infatti promosso recentemente un network euro-mediterraneo con reciproci scambi culturali, scientifici e didattici. Ma forse non è tutto. Perché è facile concordare con quanto ha scritto l’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede Francesco Di Nitto in un messaggio per la recente presentazione ravennate di questo libro con l’arcivescovo Ghizzoni, il sindaco facente funzioni Sbaraglia e l’autrice: «la promozione e valorizzazione della Carta di Madaba e della storia dei luoghi in essa raffigurati” sono “un inno di speranza per un futuro di armonia nella regione».