Festivaletteratura. Maalouf: «Generosità è la parola del futuro»
Lo scrittore libanese Amin Maalouf al Festivaletteratura di Mantova / Giorgio Boato
Il video si trova in rete abbastanza facilmente, con tanto di sottotitoli in inglese e francese. Siamo verso la fine degli anni Cinquanta e il presidente egiziano Nasser sta riferendo di un incontro con il leader dei Fratelli Musulmani: «Sapete cosa mi ha chiesto? Che imponessi il velo in Egitto, e che ogni donna che usciva per strada si coprisse il capo!». Le risate del pubblico lasciano intendere quanto una pretesa del genere risulta inconcepibile al Cairo. «Ma era così anche a Baghdad e, in generale, in tutto il mondo arabo», spiega l’accademico di Francia Amin Maalouf, che ieri a Mantova ha dialogato con lo storico Donald Sassoon sulle origini della crisi europea. Sullo sfondo – oltre a Sintomi morbosi, il saggio che lo stesso Sassoon ha pubblicato di recente da Garzanti – c’è il nuovo libro di Maaoluf, che ancora una volta intreccia la propria vicenda personale con lo scenario politico dell’ultimo mezzo secolo. Il naufragio delle civiltà (traduzione di Maria Lorusso, La nave di Teseo, pagine 346, euro 29,00) è il racconto di un intellettuale nato a Beirut nel 1949 in una famiglia di cristiani mediorientali e affermatosi come scrittore in lingua francese. Nel frattempo, anche grazie al suo lavoro di giornalista, si è trovato a essere testimone di molti eventi cruciali degli ultimi decenni. Una data, su tutte, ricorre con insistenza nel libro. «Il 1979 – ribadisce Maalouf – è stato l’anno del grande capovolgimento».
Come mai?
Basta ripercorrere la cronologia. In febbraio l’ayatollah Khomeini torna a Teheran, in maggio Margaret Thatcher diventa primo ministro del Regno Unito. Sono i due volti di uno stesso fenomeno, che si verifica simultaneamente in Oriente e in Occidente. All’improvviso non sono più i progressisti a fare la rivoluzione, ma i conservatori. Il trionfo dell’islamismo politico coincide con il predominio del libero mercato. E il sistema di potere sovietico inizia a dissolversi, anche se ancora non vuole prenderne atto. Pochi anni prima la sconfitta degli Usa in Vietnam aveva alimentato l’illusione di un’espansione del comunismo in tutti i continenti, dall’Africa all’Asia. Da questo eccesso di sicurezza l’errore, fatale, dell’impegno militare in Afghanistan.
Dove l’Urss trova il suo Vietnam.
Dove si trova faccia a faccia con i mujahidin, espressioni militari di quell’islamismo politico che è l’altra novità decisiva del periodo. In questo caso, però, il punto di svolta va situato ancora prima, per l’esattezza nel 1967. Dalla guerra con Israele, infatti, non esce sconfitto soltanto l’Egitto, ma l’intero disegno del nazionalismo arabo di cui Nasser si era fatto portatore. Con molte ambiguità, questo è indubbio. Ma è altrettanto fuori discussione che nel suo progetto non trovava posto alcuna forma di fondamentalismo. Lo ripeto: per tutti gli anni Sessanta e per buona parte dei Settanta l’islamismo come lo intendiamo oggi è praticato da gruppuscoli pressoché irri- levanti, dei quali l’opinione pubblica araba diffida perché li considera agenti provocatori delle potenze occidentali. Lo scenario cambia drasticamente in seguito ai fattori che già abbiamo elencato, ai quali andrà aggiunta la straordinaria disponibilità economica (i cosiddetti petrodollari) da parte di quei Paesi che, come l’Arabia Saudita, patrocinano un’interpretazione rigorista dell’islam.
Un’altra rivoluzione conservatrice, dunque?
Sì, un altro elemento che contribuisce a ridefinire in maniera impressionante gli scenari geopolitici. Non vanno trascurate, inoltre, l’elezione di Giovanni Paolo II nell’ottobre del 1978 né l’ascesa di Deng Xiaoping in Cina nel marzo dello stesso anno. In un periodo brevissimo si assiste a un continuo ridefinirsi di realtà che apparivano consolidate e immutabili. È l’avvio di un processo che porterà, tra l’altro, alla fine dei regimi comunisti in Europa orientale, con conseguenze anche in molte altre nazioni, Italia compresa.
Lei conosce bene la nostra politica interna.
La conoscevo una volta, quando nel vostro Paese c’era il più importante Partito comunista occidentale e uno scarto di pochi punti elettorali rispetto alla Democrazia Cristiana assumeva un significato di portata molto ampia. A un certo punto, però, non sono più riuscito a orientarmi nelle vicende italiane. Se devo essere sincero, faccio fatica anche a capire il Libano, ormai.
Posso chiederle il motivo?
Credo che sia a causa del rovesciamento di cui parlavamo prima. I cambiamenti non sono avvenuti solo al vertice, ma si sono riverberati nella mentalità delle persone comuni, che hanno perso interesse alla politica. La convinzione comune, oggi come oggi, è che per governare un Paese sia sufficiente mettere in atto una serie di soluzioni tecniche, improntate al più sfrenato pragmatismo. Basta con il welfare, basta con gli investimenti in ambito culturale. Quel che conta è il mercato e il mercato soltanto…
Non è una prospettiva incoraggiante.
Sono d’accordo, ma non è neppure una strada obbligata. Ogni volta che sono tentato dal pessimismo, cerco di ricordare a me stesso che viviamo in un’epoca straordinaria. Per la prima volta disponiamo di strumenti formidabili, che ci potrebbero permettere di risolvere tutti i nostri problemi. Manca soltanto un tassello.
Quale?
La consapevolezza che questi stessi problemi, per essere superati, vanno prima individuati con chiarezza. Avremmo bisogno di un guizzo di creatività, magari nella sua forma più semplice: la convocazione di gruppi di lavoro ristretti, incaricati di affrontare volta per volta una questione specifica. Non sto parlando di convegni imponenti, né di assise globali, ma di piccoli gruppi di persone autorevoli, determinate e, più che altro, generose.
Le sembra possibile, in quest’era dominata dall’individualismo?
Senz’altro è necessario ed è sicuramente possibile. La magnanimità non è affatto un valore del passato, come si continua ad affermare con leggerezza. I giovani, in particolare, sono capaci di una dedizione e di una gratuità addirittura commoventi. Tendiamo a dimenticare, per esempio, che l’avvento del digitale è avvenuto grazie al lavoro appassionato di molti che, almeno in una fase iniziale, si sono spesi senza attendersi alcuna retribuzione. Poi, come al solito, è prevalsa la logica limitata del profitto.
Limitata in che senso?
Nel senso che non riesce a comprendere che la generosità non è soltanto apprezzabile in sede morale, ma anche conveniente sul piano economico e sociale. Lo dimostra, tra l’altro, la politica di riconciliazione attuata da Nelson Mandela nel Sudafrica del dopo-apartheid: un gesto nobile, non si discute, ma anche un modo lungimirante, e vantaggioso per tutti, di governare la complessità.