Il lutto. Morricone e l’umiltà del grande maestro
Al telefono, il fisso di casa a Roma, rispondeva quasi sempre lui, con la sua voce tagliente e affilata. Schivo, burbero avresti detto fermandoti alle prime frasi, ma capace di raccontarsi con un sorriso che, anche al telefono, riuscivi a vedere. Lo trovavi già alle sette della mattina, perché si svegliava presto e iniziava a comporre all’alba. Ogni tanto, però, capitava che dall’altra parte del filo sollevasse la cornetta la moglie Maria con la quale Ennio Morricone, scomparso ieri a 91 anni, era sposato dal 1956. E lei, con il garbo con il quale gli è stata accanto in sessantaquattro anni di vita insieme (quattro figli, Marco, Alessandra, Andrea e Giovanni), lo chiamava per la chiacchierata concordata sulla sua ultima colonna sonora o sulla Missa Papae Francisci che nel 2015 il musicista premio Oscar aveva scritto (sollecitato a comporre una messa proprio dalla moglie) per Jorge Mario Bergoglio, conquistato dal carisma del Pontefice argentino. «Quando l’ho incontrato per consegnargli la mia partitura ci siamo guardati a lungo, in silenzio. Francesco mi ha da subito catturato perché sin dall’inizio ha caratterizzato il suo ministero dando una svolta alla Chiesa» raccontava il musicista, schivo anche nell’esibire una fede che aveva.
Una carriera lunga più di sessant’anni nella quale ha scritto oltre cinquecento colonne sonore per film e sceneggiati tv e più di cento partiture di musica contemporanea dopo aver iniziato come arrangiatore pop alla Rca. Morricone si è spento l’altra notte a Roma, in una clinica dove era ricoverato per le conseguenze di una caduta che nei giorni scorsi gli aveva provocato la rottura del femore. Si è scritto da solo il necrologio, chiedendo funerali privati «per non dare fastidio alcuno ». Così sarà. Era nato a Roma il 10 novembre 1928. Il padre Mario era trombettista al Teatro dell’Opera. E anche Ennio studiò lo strumento, diplomandosi al Conservatorio di Santa Cecilia con Goffredo Petrassi. «Con lui parlavamo molto di musica, anche se la componente spirituale restava intrinseca, non era necessario esplicitarla perché era un sottofondo presente in tutti i nostri discorsi' ricordava il compositore che ha scritto molte tra le più belle colonne sonore del cinema da C’era una volta in America di Sergio Leone a Nuovo cinema paradiso di Giuseppe Tornatore. Ma prima dell’Oscar alla carriera nel 2007 non aveva mai ricevuto la celebre statuetta. Che vinse, poi, nel 2016 per The hateful eight di Quentin Tarantino. «Li tengo chiusi a chiave in un armadietto» sorrideva il compositore che ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera, quattro Golden globes, tre Grammy, dieci David di Donatello e undici Nastri d’argento.
Morricone aveva iniziato come arrangiatore. Pop e musica contemporanea, quella che lo porterà ad aderire nel 1965 al “Gruppo di improvvisazione Nuova consonanza” di Franco Evangelisti. Oltre cento le partiture tra cui un Concerto per flauto, violoncello e orchestra, l’opera lirica Partenope, pagine di musica da camera: «Quando scrivo mi devo mettere in ascolto dell’ispirazione e assecondarla perché la musica arriva sempre da un altrove misterioso». Non c’è regista cinematografico con il quale Morricone non abbia collaborato, fatta eccezione per Federico Fellini: Pier Paolo Pasolini per Uccellacci e uccellini e Teorema, Marco Bellocchio per I pugni in tasca e La Cina è vicina, Elio Petri per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Giuliano Montaldo per Sacco e Vanzetti, Bernardo Bertolucci per Novecento. E poi Lina Wertmüller, Carlo Lizzani, Dario Argento, Carlo Verdone sino a Oliver Stone e Brian De Palma. La prima colonna sonora nel 1961 per Il federale di Luciano Salce.
«Ma dopo alcuni anni di collaborazione Luciano mi disse: “Mi sono accorto che hai un linguaggio sacrale e mi- stico, che mal si adatta a trame comiche come le mie. La nostra collaborazione finisce qui”. Restammo buoni amici, ma non scrissi più colonne sonore per lui. La sua riflessione, però, mi fece pensare. Tanto è vero che nella mia poetica ho sempre riscontrato qualcosa di sacrale e di mistico, anche nelle colonne sonore che ho scritto per i film western di Sergio Leone». Il primo per l’amico Leone fu Per un pugno di dollari nel 1964 poi arrivarono Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto e il cattivo, C’era una volta il west e Giù la testa.
E poi Mission di Roland Joffé con il celeberrimo tema Gabriel’s Oboe che spesso risuona nelle chiese. «Ma tutta la mia musica ha sempre avuto in sé qualcosa di sacrale. Ho scritto anche pagine propriamente sacre: nel 1966 un Requiem, nei primi anni ’90 una Via Crucis, nel 1995 un’Ave Regina Caelorum, nel 2008 Vuoto d’anima piena per la Cattedrale di Sarsina», ricordava il compositore per il quale «la necessità di dire, in musica, il sacro, affonda le radici lontano nella mia storia. Sono profondamente credente, cresciuto in una famiglia cattolica che mi ha trasmesso questa impronta. In casa mia si pregava molto, ogni sera e i valori della vita, quelli del rispetto degli altri, del fare del bene, della generosità e del sacrificio, valori insiti nel messaggio cristiano, li ho appresi in famiglia e ho cercato di trasmetterli ai miei figli. E quando scrivo musica tutto questo entra in modo molto naturale nel lavoro».
Nel 2016 Morricone, che di recente stava lavorando a una pagina per il Duomo di Milano, era salito sul podio in Vaticano per dirigere le sue musiche in un concerto dedicato ai poveri a conclusione del Giubileo della Misericordia voluto da Papa Francesco. «Decidere di chiudere il Giubileo con un concerto è un gesto di coraggio, significa dire che anche il nutrimento dell’anima non deve essere trascurato. Non dobbiamo mai dimenticarci di nutrire l’anima di bellezza, specie quella che offre la musica, l’espressione artistica che più aiuta l’uomo ad avvicinarsi a Dio» aveva detto il compositore prima di dirigere il Tema di Deborahda C’era una volta in America, l’Addio monti da I promessi sposi, Tra cielo e terra scritto per il film su Padre Pio. E, naturalmente, Mission. Perché Morricone era anche direttore d’orchestra. Girava il mondo. E quando era in Italia – i concerti con la Filarmonica della Scala, all’Arena di Verona, a Santa Cecilia, a Caracalla con l’Opera di Roma – faceva di tuto, una volta sceso dal podio, per tornare a dormire a casa.
«Ho avuto la grazia del dono del talento musicale e la possibilità di poter studiare musica per coltivarlo – disse, nel bilancio della sua vita – . Faccio un lavoro esaltante perché quando si scrive si compie un atto creativo potentissimo, si trae qualcosa dal nulla, si dà forma a suoni che poi arriveranno al cuore delle persone. Ho sempre lavorato guardando avanti. Certo, ho avuto anche momenti di crisi, superati, però, grazie alla fiducia nei miei mezzi... Ho scritto per tutte le espressioni di musica contemporanea: commerciale, sinfonica, da camera, colonne sonore, arrangiamenti e canzoni. E pensando alle mie partiture mi accorgo di essere affezionato a tutte perché tutte mi hanno fatto soffrire, come capita con i figli, ma mi hanno dato anche tante soddisfazioni».