Dibattito. Ma la letteratura fa sempre bene o può essere letale?
Con la riapertura delle librerie dopo il lockdown, in molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Per tante persone, infatti, leggere è un bisogno primario, e dunque le librerie possono essere considerate – come ha detto il ministro dei beni culturali, Dario Franceschini – “servizi essenziali”. Ma siamo sicuri che la lettura faccia sempre bene? Sul filo del paradosso, vogliamo provare a rifletterci sopra. Perché in effetti la Storia annovera diversi casi in cui l’attività della lettura è stata dannosa, e talora persino esiziale. Quando leggiamo un romanzo, per poter godere del piacere della narrazione, dobbiamo mettere in atto quella che i teorici della letteratura chiamano “sospensione dell’incredulità”: se in un racconto horror compare un fantasma, fingiamo di credere che esso esista veramente; se in un romanzo di fantascienza si parla di una macchina del tempo, siamo disposti a credere che un simile marchingegno sia davvero possibile. Se lo scrittore deve credere a quello che racconta, alla stessa disposizione mentale è tenuto anche il lettore: questo almeno per tutto il tempo della lettura. I problemi cominciano quando questa fiducia cieca e incondizionata in ciò che racconta un libro si prolunga anche dopo che l’abbiamo chiuso, cioè nella vita reale.
È quanto accade a Emma, la signora Bovary dell’omonimo, celeberrimo romanzo di Flaubert. Reclusa nell’insignificante realtà di provincia, Emma può trovare consolazione solo nel sogno. L’oggetto dei suoi desideri è Parigi, la metropoli fastosa ed eccitante che offre palazzi, teatri, incontri mondani, ristoranti alla moda: insomma, tutto ciò che lei non può avere, soffocata dalla noia di una scialba vita matrimoniale. Solo le letture e l’immaginazione le permettono di evadere verso il regno sublime delle sue aspirazioni. La donna si ammala così di quell’atteggiamento mentale che prenderà nome da lei: con il termine “bovarismo” si indicheranno la tipica insoddisfazione spirituale e la propensione psicologica a costruirsi una personalità fittizia, nella quale riversare il desiderio di vivere in un mitico “altrove”, in un paradiso della mente dove sfuggire alla noia della quotidianità, un mondo alternativo costruito a partire dai libri. Questo purtroppo non succede soltanto ai personaggi letterari, ma anche alle persone reali. Si pensi all’ondata di suicidi giovanili che attraversò l’Europa dopo la pubblicazione del romanzo I dolori del giovane Werther (1774) di Goethe, che prende spunto da una tragica vicenda d’amore contemporanea, l’appassionata storia di una delusione sentimentale che si concludeva, appunto, con il suicidio del protagonista.
Da noi è stato Guido Gozzano ad aver evidenziato, all’inizio del Novecento (e della postmodernità), i pericoli, anche letali, di tale atteggiamento. C’è una sua prosa, intitolata Intossicazione, in cui, riprendendo un fatto di “cronaca nera” del tempo, ci parla di un esempio eclatante di «intossicazione letteraria». Vi troviamo il personaggio di Stefano, montanaro diciassettenne della Val di Susa, che aveva commesso un duplice omicidio. Il ragazzo era innamorato di una certa Caterina, ma non la corteggiava in modo comune; lo faceva mandandole le poesie che componeva per lei, per il resto, novello stilnovista, limitandosi a guardarla da lontano. Caterina inizialmente era stata lusingata da questo fatto insolito, ma poi a poco a poco aveva perso il suo entusiasmo quando aveva capito che Stefano non sarebbe andato oltre le poesie. A quel punto lo aveva piantato in asso e si era messa con un ragazzo forse meno sensibile ma senz’altro più concreto. Allora Stefano, accecato dalla gelosia, era corso al ballo pubblico dove i due si davano alle danze e li aveva freddati con due perfetti colpi di pistola. Nel commentare il fatto scrive Gozzano: «Io credo di dover attribuire la colpa massima a Monna Letteratura. Stefano è stato vittima dei suoi imparaticci poetici. Poeta egli stesso, ma candido e ignaro, la sua anima non si sarebbe guasta, riarsa, illividita fino al delitto atroce, se non fosse stata esaltata dai troppi libri che lo raggiungevano nella sua valle serena: Balzac, Chateaubriand, Cavallotti, Graf, Carducci, Stecchetti; libri di maestri e di non maestri, letture varie e disparate, perniciosissime tutte per una psiche ingenua, candida, primitiva, già propensa al sogno e alla fantasia. È l’esempio tipico della intossicazione letteraria». Insomma, se vogliamo che la lettura ci faccia bene, conviene sempre coltivare, qualunque cosa leggiamo, una dimensione fondamentale: il senso critico.