«Decine di milioni di egiziani vivono grazie alle acque del Nilo. Cosa succederà se Uganda, Etiopia e Sudan cominceranno a prendere più acqua? L’Egitto andrebbe sicuramente in guerra». È quanto ha affermato martedì scorso, 15 giugno, Alexandros Papaioannou, Policy Advisor della Nato, ad un convegno al Senato su clima e sicurezza, organizzato da Giuseppe Esposito, vicepresidente del Copasir (Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica). Il tema è scottante se si considera che i Paesi a monte del grande fiume esigono un accordo quadro di cooperazione sull’intero bacino idrografico, a cui però si oppongono tenacemente Egitto e Sudan. Si tratta di una vecchia storia che affonda le radici nel passato e sulla quale vale davvero la pena riflettere. A parte la civiltà egiziana che si sviluppò lungo le sponde del Nilo, vi sono testimonianze raccolte da alcuni storici latini che parlano di almeno una missione esplorativa alla ricerca delle sorgenti del fiume. Ne parla Seneca in un trattato, De Nubibus, in cui offre particolari sulla spedizione mandata da Nerone (61 d.C.) «ad investigandum caput mundi», avendo egli stesso udito, dalla viva voce di due pretoriani, il racconto del loro tentativo di scoperta del «caput Nili». Anche Plinio il Vecchio (70 d.C.) parla della spedizione neroniana in vista di un’eventuale guerra di conquista. A Meroe, capitale dell’impero omonimo, situata circa 200 chilometri a nord della moderna Khartoum e 800 chilometri a sud di Assuan, i capi della spedizione ricevettero – come scrive esplicitamente Seneca – istruzioni del re e lettere commendatizie per i re che avrebbero incontrato nell’interno («a rege Aethiopiae instructi ausilio commendatique proximis regibus ad ulteriora»). Partiti da Meroe, dopo molti giorni raggiunsero delle immense paludi («post multos dies – sicut aiebant – pervenimus ad immensas paludes») coperte di erbe acquatiche («implicatae aquis herbae») così fitte che né uomo né barca grande («navigio») potevano passarvi sopra, tranne qualche barchetta con un solo uomo a bordo. La descrizione data da Seneca corrisponde ancor oggi, secondo lo studioso comboniano padre Giovanni Vantini, scomparso lo scorso 3 maggio, al lago No, immensa palude, profonda 2-5 metri, formata dalla confluenza del fiume Bahr el Ghazal col Nilo proveniente dall’Equatore. Le conclusioni di Vantini, che nel 1996 pubblicò un interessantissimo articolo sul mensile
Nigrizia, si basano su un’operazione di sinossi (comparazione) tra quanto riferito dagli autori latini e l’attuale corso orografico del Nilo. Per Vantini, dunque, non sarebbe da escludere che i pretoriani giunsero addirittura in territorio ugandese. In effetti, nel racconto di Seneca si legge: «Vedemmo due rocce…» («Ibi vidimus duas petras, ex quibus ingens vis fluminis excidebat»). Lo scenario sarebbe quello delle cascate Murchison, oggi Kabalega, dove il Nilo proveniente dal Lago Vittoria, precipita nel Lago Alberto, con un salto di 100 metri, in una gola di appena 60-70 metri. Alcuni storici, come il grande meroitista F. Hintze, ritengono persino che Nerone abbia mandato due spedizioni successive, perché la prima del 61 d.C., riportata da Seneca, parla di un «re d’Etiopia» che «fornì aiuti e commendatizie» ai centurioni; l’altra del 66-67, riportata da Plinio, menziona invece una regina (Candace). Una cosa è certa, nelle lingue Luo del Nord Uganda, Acholi e Lango, si trovano alcune parole come «nekare», che significa «uccidere», con evidenti assonanze latine («necare»). Una traccia remota della possibile colonizzazione romana in Uganda? Difficile dimostrarlo, ma comunque siano andate le cose, l’interesse dei romani andò ben al di là delle geografia, non foss’altro perché l’Impero aveva estremo bisogno di materiali preziosi e soprattutto di schiavi. Testimonianze di quell’epoca indicano una presenza consistente di nubiani a Roma, utilizzati addirittura come gladiatori per i giochi nelle arene. Sta di fatto che dopo duemila anni di storia, sebbene la millenaria epopea coloniale in Africa si sia conclusa 50 anni fa, negli anni ’60, le dispute economiche relative al controllo dell’immenso bacino idrografico del Nilo non sembrano essersi sopite e per certi versi riguardano anche il nostro Paese. Infatti, il governo italiano e la Banca Europea per gli investimenti hanno emesso prestiti milionari, secondo l’autorevole giornale keniano «Daily Nation» del 17 maggio scorso, per la realizzazione di almeno cinque delle dieci dighe in costruzione. Tra queste figura in territorio etiopico, la grande diga di Tana Beles, inaugurata lo scorso 14 maggio. Il tema è certamente controverso: per alcuni, infatti, tutto questo impegno è sinonimo di sviluppo e modernizzazione. Per altri si tratta solo d’affari per le imprese con un impatto ambientale e sociale devastante sulle popolazioni locali. Per altri ancora, infine, è una pura questione di sopravvivenza. Sarà comunque la storia a giudicare la consistenza delle attuali alleanze politiche ed economiche internazionali sulle quali è comunque doveroso tenere alta la guardia. Entro il 2025, è bene rammentarlo, si stima che per ragioni demografiche e climatiche, circa 1 miliardo e 800 milioni di esseri umani vivranno in Paesi dove mancherà l’acqua. In Africa il numero potrebbe oscillare tra i 75 e 250 milioni di persone: uomini e donne che non avranno accesso a questo bene vitale.