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Il poeta greco. Lyacos: «Emarginati, dramma postmoderno»

Alberto Fraccacreta giovedì 1 dicembre 2022

Il poeta greco Dimitris Lyacos a Delfi

Dimitris Lyacos, poeta greco classe ’66, nel corso di un trentennio di attività letteraria, ha composto il trittico Poena Damni, oggi disponibile in italiano nell’elegante cofanetto edito dal Saggiatore (traduzione di Viviana Sebastio, pagine 328, euro 23). Fellow all’International writing program dell’Università dello Iowa, esperto di metafisica e storia delle religioni, Lyacos fa suo il concetto steineriano di “densità” dell’opera: ogni singola riga di questo palingenetico romanzo en vers et en prose sprizza di rimandi variamente identificabili. Si pensi alla sesta poesia di La prima morte: «Sfigurato dai colpi di coltello / corpo fatto a pezzi sull’aspro suolo / il lezzo del cuore silenzioso / pesante, che in lento strazio muore / mano cinerea raminga, vanga / che sfiora campi di cicatrici sull’altra spalla / e nascondendo per un istante la nuda mutilazione / si solleva fino alla bocca [...] / questo torchio vuoto, inutile, asciutto ». Parole come “cicatrici” e “torchio” risultano allumate da un incremento della letterarietà che fa riecheggiare in loro rispettivamente Odissea XIX, 391 e Marco 12,1. Abbiamo incontrato l’autore su Google Meet per approfondire ulteriormente lo spessore intertestuale di Poena Damni, «allegoria della sofferenza », e i suoi significati etico-metafisici. Lyacos, cordiale e disponibile, ha risposto ai quesiti in perfetto italiano.

In Z213: Exit, primo dei tre volumi di Poena Damni (ma ultimo in ordine di pubblicazione), l’atmosfera post-apocalittica richiama forse La strada di Cormac McCarthy. A cosa allude il titolo?

Innanzitutto, vorrei dire che sono un lettore molto esigente: raramente ci sono scrittori che mi convincono. Con Cent’anni di solitudine di Gabriel García Már-quez, ad esempio, sono arrivato a pagina settanta e l’ho accantonato. McCarthy è tra i pochi scrittori che apprezzo tantissimo. Meridiano di sangue è, a mio giudizio, un capolavoro. Sento consentanea la violenza dell’espressione, il potere del suo linguaggio, la presenza di elementi archetipici. C’è chi ha paragonato i miei temi a quelli di McCarthy, e chi curiosamente ha trovato somiglianze con Beckett, forse per via della scrittura ellittica... Riguardo al titolo Z213: Exit, c’è senza dubbio una sovradeterminazione semantica. Alcuni critici hanno ravvisato in esso il numero di un prigioniero rinchiuso in una cella o in un luogo mentale; altri l’episodio della fuga di Maria e Giuseppe in Matteo 2,13-23; altri ancora il passaggio del Mar Rosso. Tutto è vero e plausibile. Un aspetto per me interessante è, però, la Constitutio Antoniniana promulgata nel 212 d.C., che estendeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero, eccetto i dediticii. Il 213 è il primo anno in cui prende forma questa legge, e una parte della popolazione ne è esclusa: sono apolidi secondo la normativa latina, ossia coloro che sono posti al di fuori della società. Gente senza diritti, senza la protezione dello stato. L’esistenza solitaria del protagonista di Z213: Exit è simile a quella dei dediticii. È un’idea che mi è balenata nella testa mentre Giorgio Agamben stava lavorando al suo Homo sacer. Anche lui trattava di emarginati, ma da un punto di vista religioso... Gli immigrati che oggi attraversano il Mediterraneo in condizioni disperate sono comparabili ai dediticii. Cercano di vivere un’esistenza normale, ma di fatto sono estromessi dalla nostra società.

La sua scrittura è catalogata nelle modalità espressive del postmodernismo. Vede qualche legame con i reticoli profondi di Thomas Pynchon?

Pynchon è un autore fantastico e crea i suoi romanzi – L’arcobaleno della gravità, ad esempio – come se egli stesso sia un narratore- dio capace di dare ordine al caos e sistemare punto per punto quel cosmo così particolareggiato. Poena Damni è invece un’opera aperta, frammentata: non c’è un ordine precostituito, e anzi l’autore e il lettore collaborano insieme per fornire un assetto organico. È quindi un’esperienza reale, che si presta a letture intersoggettive. Insomma, l’opposizione tra autore e lettore non è così chiara, tant’è vero che l’Historical Dictionary of Postmodernist Literature and Theater, a cura di Fran Mason (Scarecrow Press, 2007), lo ha definito « surfiction ». Per quanto concerne il gomitolo di piani culturali differenti, ritengo che, sin dall’inizio della letteratura, sia presente tale pratica. Pensiamo alla Genesi che ha quattro autori e ognuno scrive qualcosa di suo, magari in contrasto con quanto detto poco prima. Che ci siano diversi testi in dialogo è una questione antica, non riguarda soltanto il postmodernismo.

Nella seconda parte, Con la gente dal ponte, fondamentale è l’episodio di Marco 5,1-20 che narra la storia dell’indemoniato geraseno. Come s’inserisce questo elemento nella fitta trama del libro?

Be’, qui l’indemoniato è un essere umano dotato di personalità multiple. È una mente che pian piano si disintegra, perché è affetta da malattia mentale, psicosi, depressione... Potremmo paragonarlo a un teatro di voci che s’intrecciano fra loro. In questa seconda parte, di rilievo è anche l’elemento vampirico, legato alla tradizione folklorica greca, secondo la quale i morti tornavano in vita perché il diavolo entrava nel loro corpo.

La base letteraria di La prima morte, terza parte di Poena Damni, è il mito di Filottete...

Sì, mi interessava una situazione di base in cui lasciar emergere la lotta tra l’individuo e l’ambiente. Se resti immobile, l’ambiente potrebbe distruggerti: bisogna lottare per la vita. Lottare per sopravvivere, per mantenere l’integrità contro la decomposizione della carne. Il mito di Filottete è stato molto utile, anche perché racconta di una persona emarginata. In effetti, lungo tutta l’opera è possibile notare varie tipologie di emarginazione: i dediticii in Z213: Exit, come abbiamo detto; coloro che sono tra la vita e la morte in Con la gente dal ponte; e qui l’emarginato dalla società, solo in una sperduta isola rocciosa, che può contare unicamente sulle sue capacità di sopravvivenza. Oltre a Filottete, dalla penombra spunta il profilo di un Robinson Crusoe capovolto. Infatti, a differenza del personaggio di Defoe, in La prima morte il protagonista perde gradualmente il supporto della tecnica e delle sue stesse possibilità. Ma, nonostante tutto, riesce a mantenere intatta la voglia di vivere.

Il leitmotiv dei tre testi è il sacrificio inteso nell’accezione girardiana del termine. Quanto è importante per lei la ricerca religiosa?

È molto importante: non ricordo un momento della mia vita in cui non sia stato interessato alla questione religiosa. La concezione girardiana del sacrificio mi ha ispirato parecchio. In Levitico 16,7-10, peraltro, si parla di due capri espiatori: uno sacrificato a Dio, l’altro espulso. Ecco, in Poena Damni sono interessato al «capro mandato ad Azazel nel deserto». Il libro zero di questa trilogia – in realtà, una tetralogia – è Until the Victim Becomes Our Own, che il Saggiatore pubblicherà l’anno prossimo. Anche lì entrano in circolo le origini biologiche della violenza nella società. Vi è persino una descrizione clinica, dettagliata di un animale in un mattatoio. Tutta la società si forma attorno a un sacrificio basilare, archetipico. Cosa sarebbe la religione cristiana senza il sacrificio di Gesù? D’altra parte, il titolo generale, Poena Damni, appartiene a san Tommaso d’Aquino: la differenza, cioè, tra poena sensus e poena damni appunto (non avere più la speranza di vedere Dio). La religione è per me una continua ricerca: studio la tradizione cattolica, quella ortodossa; sono interessato ad Agostino, Tommaso, ma anche alla via apofatica dei padri cappadoci e di Meister Eckhart. Lavoro all’interno di questi universi, che comprendono la scienza e l’antropologia. È un sistema che non cessa di formarsi, di cristallizzarsi. Tutto ciò grazie all’ambiguità della parola poetica.