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Il poema. L'Ulisse di Kazantzakis, esploratore del mistero

Alessandro Zaccuri venerdì 4 dicembre 2020

Il poeta greco Nikos Kazantzakis (1883–1957)

Il secolo breve delle riscritture novecentesche dell’epica omerica si apre e si chiude in lingua inglese. Si apre in prosa nel 1922, con Ulisse di James Joyce, e si chiude in poesia nel 1990, con Omeros di Derek Walcott. Nel frattempo, sul finire degli anni Trenta, il mito ha ritrovato la sua lingua originaria, il greco, e ha addirittura ritrovato il ritmo di un verso, il decaeptasillabo, che ricalca l’esametro classico. Si potrebbe pensare che la versione che ne consegue sia la più fedele e forse è davvero così, in un certo senso. Ma la storia non può essere la stessa, l’avventura non può ripetersi in modo identico, il viaggio del nuovo Ulisse deve seguire un altro itinerario. Deve, più che altro, avere un approdo diverso. Itaca non basta più, come aveva intuito Dante, i Proci sono appena stati sterminati ed è già tempo di ripartire. Comincia così, con l’eroe improvvisamente disamorato di Penelope, l’Odissea di Nikos Kazantzakis, poema a sua volta circondato da una fama leggendaria, non fosse altro che per la misura esatta di quei 33.333 versi suddivisi in 24 canti che ne fanno la più imponente tra le opere del genere in ambito occidentale.

Non è soltanto la mole, non è soltanto la complessità delle vicende immaginate da Kazantzakis a rendere impervia l’impresa di tradurre l’Odissea. Il vero nodo è quello della lingua e, in particolare, dei circa duemila athisàvrista, i termini non censiti dai dizionari dei quali il poeta si serve per dare ulteriore concretezza al suo stile. Con una tenacia che di nuovo ricorda la scelta di Dante a favore del volgare, nei lunghi anni della stesura della sua Odissea (iniziata nel 1924, fu pubblicata nel 1938) Kazantzakis si muove per tutta la Grecia alla ricerca delle parole impiegate da pescatori e contadini, collezionando varianti dialettali e invenzioni lessicali che rappresentano l’estrema sopravvivenza della tradizione orale da cui erano discesi gli stessi poemi omerici. Di questa vicenda – grandiosa anche solo sul piano formale – il lettore italiano aveva finora notizie indirette oppure parziali. Ora, a conclusione di un lavoro a sua volta protratto nel tempo, Nicola Crocetti firma la prima traduzione dell’epopea di Kazantzakis, accompagnata da un corredo essenziale di note e di apparati (Crocetti, pagine 800, euro 35,00). Anche nella sua veste di editore, Crocetti è la figura che più di ogni altra si è spesa nel nostro Paese per la conoscenza e la diffusione della poesia greca moderna, come dimostra la ripresa di molti importanti titoli del suo catalogo, da Seferis a Ritsos, nella collana realizzata dopo l’accordo con il gruppo Feltrinelli.

L’Odissea occupa un posto a sé, a conferma di un interesse per Kazantzakis che già aveva reso disponibili da Crocetti i libri maggiori dell’autore in versioni affidabili (perché condotte sull’originale e non su traduzioni in altre lingue). Nato nel 1883 a Iraklio, sull’isola di Creta, e morto nel 1957 a Friburgo, Kazatnzakis ha rappresentato e ancora rappresenta un caso irrisolto, e non solo per via del mancato riconoscimento del Nobel, negatogli dopo il clamoroso boicottaggio da parte della stessa comunità intellettuale greca. Tutta la sua esistenza è caratterizzata da un’irrequietezza spirituale che non mancò di provocare incomprensioni e condanne, fino alla scomunica comminata nel 1953 dalla Chiesa ortodossa per il romanzo L’ultima tentazione di Cristo. Anche il suo Ulisse è essenzialmente un esploratore del mistero, che nel poema viene affrontato nella prospettiva di un sincretismo nel quale gioca un ruolo rilevante un’interpretazione molto personale del messaggio evangelico. In estrema sintesi, l’Odissea descrive un percorso tra il visibile e l’invisibile, che può essere riassunto in una delle numerose invocazioni di preghiera e di sfida che il protagonista rivolge verso il cielo: «Dio, ti chiamano Spirito perché generi la carne; / Dio, ti chiamano Carne perché generi lo Spirito». Ulisse lascia Itaca, dicevamo, ma non senza aver favorito le nozze tra il figlio Telemaco e Nausicaa. Fa rotta verso Sparta, rapisce un’Elena non meno inquieta di lui, ripara dopo una tempesta a Creta, dove si sta consumando il crepuscolo della civiltà minoica. Allo stesso modo, più tardi farà tappa in Egitto, risalendo il Nilo fino a Tebe.

Nella prima metà del poema Ulisse (che Kazantzakis designa con una ricchissima varietà di epiteti: Arciere, Millenanime, Asceta e molti altri ancora) è un uomo d’azione, ovunque suscita l’amore di schiave e principesse, si unisce a rivolte, ha l’ambizione di cambiare il corso degli eventi. L’apice di questa fase è rappresentato dalla fondazione di una Città ideale che subito viene distrutta da un cataclisma, a riprova dell’antagonismo tra umano e divino che attraversa tutta la riflessione di Kazantzakis. Stremato e nello stesso tempo purificato dalla sconfitta, Ulisse intraprende un pellegrinaggio attraverso l’Africa scandito da una seri di incontri nei quali si rispecchiano i momenti fondamentali dell’esperienza interiore: il Principe della Terra, tormentato dall’idea della morte, allude al Buddha, la cortigiana Margarò è l’emblema dell’eterno femminino (il Faust di Goethe è una delle principali fonti del poema), Capitan Uno rinvia all’idealismo di Don Chisciotte e il Pescatore gentile, infine, è lo stesso Cristo, dal quale il protagonista si congeda a malincuore per intraprendere l’ultimo viaggio, che lo porterà a trovare l’illuminazione e la morte tra i ghiacci del Polo Sud (qui invece è il Gordon Pym di Poe a fare da modello). È un racconto impetuoso e sovrabbondante, che Crocetti riproduce in versi distesi ed eleganti, riuscendo nell’intento di restituire la commistione tra aulico e popolare. L’ambizione visionaria di Kazantzakis (che all’interno del poema si ritrae nelle vesti di un cantore) può apparire eccessiva e a tratti contraddittoria, ma è difficile negare la bellezza che la sua Odissea riesce a sprigionare, a partire dal magnifico proemio. «Sole, grande astro orientale, berretto d’oro della mente, / che amo portare di traverso, / ho voglia di giocare, / perché gioiscano i cuori finché entrambi siamo vivi».