I 100 anni di Luciano Erba, poeta “ippopotamo” aperto al metafisico
Lo scrittore e poeta Luciano Erba
«Il sogno in cui mi avviene / di manovrare un tram senza rotaie» è una delle immagini più vive del “tranviere metafisico” Luciano Erba, poeta appartato eppure fondamentale del Novecento letterario. Lo dimostrano i tributi editoriali in occasione del centenario di quest’«uomo vecchio in città / disperso su tronchi secondari di ferrovia».
Già ventenne, su un quaderno giovanile degli anni della guerra, rincorreva «rotaie vuote di ruote» tra le case della sua Milano, dov’è nato nel 1922, sulla «via che porta alle ortaglie» nell’orizzonte lombardo dal colore prediletto, il verde, presente nei suoi testi dall’esordio di Linea K per tipi di Guanda e fino agli ultimi prima della scomparsa nel 2010. Rifugiato in Svizzera nel 1943, grazie a una borsa di studio riesce a frequentare l’Università di Losanna e a seguire i corsi di Contini a Friburgo, laureandosi in Italia nel 1947, prima di cercare fortuna a Parigi e nuove tracce di studio sull’amato Cyrano de Bergerac e il primo Seicento francese. Rientrato a Milano, dagli anni 50 è professore di letteratura francese nella sua università di studente, la Cattolica, dove concluderà la carriera dopo varie parentesi, anche negli Stati Uniti.
Tra le principali raccolte, tra Einaudi, Scheiwiller e Garzanti, riunite ora in Tutte le poesie in un "Baobab" Mondadori a cura di Stefano Prandi, resta nodale L’ippopotamo, forse il suo capolavoro, in cui Erba sembra arrivare a una riflessione più matura, quasi un ripiegamento. Lo testimonia proprio la scelta del titolo, l’“ippopotamo”, figura molto terrena e quasi antifrastica rispetto al “tranviere metafisico” della raccolta precedente. Non significa però che l’ironia e l’utopia religiosa del dinoccolato francesista milanese si siano perse tra le pagine, visto che le due poesie metaforiche sono affiancate e centrali nel libro: così il desiderio del guidatore su rotaie metropolitane di «portarmi all’al di là un po’ di qua» non contraddice le deluse «irruzioni d’azzurro» del grande mammifero nel folto della giungla dentro «un segno che segna se stesso».
È la stessa poetica del “nastro di Moebius”, altro titolo emblematico, secondo cui percorriamo un solo lato trovandoci sulla parte opposta senza accorgerci in una continua sovrapposizione di attese e delusioni, del «rovescio del nulla: non già il pieno, bensì quegli stati di estrema rarefazione del reale». Qui, come ha scritto Maurizio Cucchi, «la memoria è sempre attiva non senza l’affiorare di un’elegante, circospetta autoironia», ricercata anche nelle sue versioni poetiche da altre lingue, raccolte da Franco Buffoni in I miei poeti tradotti (oggetto di un reading commemorativo in Università Cattolica a Milano il prossimo 21 settembre).
Erba è un grande suggeritore di interrogativi più che risposte e questo è uno dei suoi valori maggiori. Lo sa chi ha avuto il dono di conoscerlo ed essergli amico frequentandolo sul suo terrazzo-osservatorio «a trenta metri dal suolo», sopra una Milano al tramonto, davanti al quale offriva i suoi tipici stupori a occhi aperti, ben espressi in un autoritratto lirico: «interroghi l’alfabeto delle cose / ma al tuo non capire niente di ogni sera / sai la risposta di un mazzo di rose?».