Il teologo venezuelano. Luciani: «Francesco, Papa per il popolo»
Il teologo Rafael Luciani
Nessuna parola è stata così abusata negli ultimi anni come “popolo” (i fatti del 6 gennaio a Washington lo dimostrano). I sovranismi e populismi politici hanno stravolto un termine che nella tradizione biblica e teologica, dall’Esodo al Vaticano II, ha un forte senso spirituale e antropologico. E con papa Francesco è tornato centrale nella riflessione e nella pratica ecclesiale. Ne parliamo con il teologo venezuelano Rafael Luciani, perito del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) e autore di vari studi su questo argomento.
La nozione di Chiesa come popolo di Dio è centrale nel Concilio Vaticano II. Perché ancora oggi suscita una certa novità questa categoria di pensiero teologico, quasi che la Chiesa non dovesse avere un legame con il “popolo”?
La categoria di “popolo di Dio” è stata centrale nell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II. Negli anni seguenti si è assistito a un cambiamento nell’interpretazione del Concilio privilegiando la categoria di “comunione”, in un senso gerarchico. Francesco, seguendo Paolo VI, recupera la categoria di Chiesa come “popolo di Dio” e la approfondisce. Possiamo dire che recepisce il Concilio tramite la tradizione latinoamericana, in cui la Chiesa come “popolo di Dio” è un concetto fondamentale, considerando la Chiesa come popolo di Dio in mezzo ad altri popoli e alle loro culture. In questo un elemento importante è il recupero della dimensione orizzontale nelle relazioni tra tutti i soggetti ecclesiali, ovvero che, dal Papa ai laici, tutti e tutte sono “fedeli” in ragione del battesimo e della partecipazione al sacerdozio comune. Tramite questa categoria possiamo superare l’attuale crisi del clericalismo, che impedisce di avere riforme nelle strutture e ha generato una mentalità piramidale, diffusasi nelle parrocchie e nei seminari. Tutto questo, perché non è stato superato il modello tridentino della Chiesa.
Nel suo primo viaggio apostolico in Brasile, Francesco affermò che la visione del documento di Aparecida, cioè «il credente come discepolo-missionario in una Chiesa-popolo», sarebbe dovuta essere la stella polare della Chiesa universale. Oggi le resistenze a Francesco si sono intensificate. Forse perché una certa visione ecclesiale euro-centrica viene scalzata da uno sguardo proveniente “dalle periferie”?
In Brasile Francesco esplicita la linea che ispirerà il suo pontificato. In una riunione con il direttivo del Celam, spiegò l’importanza della Conferenza di Aparecida per il suo pontificato. Ricordiamoci che egli presiedeva la commissione che ne scrisse il documento conclusivo. Da Aparecida Francesco assume il concetto di “conversione pastorale”. Questa è una delle chiavi di lettura più importanti del suo pontificato: nella letteratura teologica non ispanica molte volte questo concetto viene frainteso. Parlare di conversione pastorale significa riferirsi a un modo di essere Chiesa che parte dal basso, dal contatto diretto con il popolo di Dio e a partire dalla realtà che si vive. È la visione di una Chiesa che va incontro all’altro, che esce da sé, superando ogni autoreferenza e centralismo. Tale categoria non ha origine ad Aparecida, ma nella precedente Conferenza di Santo Domingo. Lì tale concetto si riferiva al cambio delle relazioni del potere e dell’autorità nella Chiesa. Implicava la nascita di un cambiamento nelle strutture ecclesiali e non solo nella mentalità. Questo dato, poco conosciuto, ha fatto sì che il concetto di conversione pastorale diventasse più “leggero” e limitato alla sola azione socio-pastorale della Chiesa quando, invece, si riferiva a una conversione delle strutture di potere e autorità.
Dire Chiesa come popolo, sulla scia del Concilio, di Populorum progressio e della tradizione latinoamericana, significa dire che «il kerygma possiede un contenuto indubitabilmente sociale» ( Evangelii gaudium 177). Su questo punto le opposizioni a Francesco si sono palesate chiaramente. Pesa di più l’abbandono di una visione “sacrale” della fede oppure è questa visione sociale a fare problema a tanti?
Con Francesco ritorna la circolarità tra un pontificato e la Chiesa in America latina come si era avuto con Paolo VI, in particolare nella relazione fra Aperecida e Evangelii gaudium. Il concetto di conversione pastorale è presente fin da Medellin per superare la visione di una pastorale solo sacramentalista, di mera conservazione dell’esistente, incentrata sul dato liturgico, e una che, invece, invoca una prassi evangelizzatrice e comunitaria, propria di una Chiesa in uscita che favorisce le piccole comunità. Questa è un sentire comune delle Conferenze di Medellin, Puebla, Santo Domingo e Aparecida: la Chiesa si costruisce e vive a partire dalla comunità di comunità. Però dobbiamo riconoscere che tale visione è stata poco recepita nella Chiesa cattolica, dove continua a esistere una religione clericale, privatistica e sacralizzata, sempre meno sintonizzata sulla vita delle persone. Quando in America latina si parla con le persone diventate pentecostali, affermano che nella Chiesa cattolica non si sentivano accolte come in una famiglia. Serve recuperare la dimensione orizzontale e fraterna nelle comunità. Parlare di “popolo” rischia di prestare il fianco alle accuse di “populismo”, assecondando quanti lo vedono contrapposto alle élite, secondo una semplificazione manichea. Come far sì che la dimensione autenticamente popolare risplenda meglio in quest’era della globalizzazione? L’errore è interpretare la categoria di popolo come un termine populista o che invita al populismo. Francesco la usa a vari livelli: il “popolo-povero” che ha bisogno di essere accompagnato contro la povertà; il “popolo-nazione” che partecipa a un’identità e a un progetto comuni; il “popolo- fedeli” che vive la vita quotidiana della fede. In tutte queste modalità c’è una chiamata a essere soggetti e non oggetti dipendenti, oppure manipolati da ideologia di sinistra o di destra. In Fratelli tuttiFrancesco afferma che i populismi deformano il popolo e lo strumentalizzano, perché non ne riconoscono i valori propri e lo usano solo per progetti politici o ideologici. Francesco ricorda che dobbiamo recuperare la giusta nozione di popolo, un concetto che richiama all’unità e alla comunione intorno a una identità socioculturale comune, a un progetto sociopolitico che ricerca il bene comune e a quei valori che un gruppo di persone va costruendo nel tempo. Popolo non è un concetto che contrappone ricchi e poveri, non riguarda la lotta di classe ma è una chiamata alla responsabilità che tutti abbiamo per il bene comune. Basta leggere Fratelli tutti e collegarla ai molti discorsi pubblici di Francesco, in particolare i suoi viaggi apostolici in Paraguay e a Cuba, dove ha avvertito che le ideologie finiscono per trasformarsi in dittature e annullano il popolo, perché lo trasformano in un oggetto.
Massimo Borghesi, nella sua biografia intellettuale di Francesco, ricostruisce il percorso che ha portato la teologia del popolo e la teologia della liberazione a coniugarsi in una visione non dialettica ma unitaria. La religiosità popolare, però, non è ancora diventata quel “luogo teologico” che Francesco auspicava. Cosa resta da fare?
In America latina non vi è una sola teologia omogenea. Si può parlare di un metodo che parte dalla prassi, suscita una riflessione e torna alla pratica. Possiamo parlare di varie linee della teologia della liberazione. La teologia del popolo non è una teologia antagonista alla teologia della liberazione, come talvolta si dice. La teologia latinoamericana cerca la liberazione dalle situazioni di oppressione e il superamento delle condizioni di vita meno umane in campo economico, politico e sociale. Non si può contrapporre la religiosità popolare con quella della liberazione. Anzi, in molti paesi la prima è un mezzo per esprimere le proteste verso i problemi politici che si vive in quel Paese. Lo sapevano le persone che durante la dittatura argentina andavano in processione al santuario di Lujàn, così come quelli che vanno al santuario della Divina Pastora in Venezuela per protestare contro la dittatura attuale nel Paese. In entrambi i casi è noto che le omelie si levano con tono profetico e critico contro le strutture di oppressione esistenti.