Agorà

Recensione. Alla Fenice la «Lucia di Lammermoor» di Micheli è spettrale e prevedibile

Pierachille Dolfini mercoledì 3 maggio 2017

Una scena di "Lucia di Lammermoor" di Gaetano Donizetti, in scena al Teatro La Fenice di Venezia. Direttore Riccardo Frizza, regia Francesco Micheli (Michele Crosera)

Più che Lucia di Lammermoor sembra il film La notte dei morti viventi. Perché in scena, tutta immersa in un buio spettrale, ci sono fantasmi, personaggi usciti dall’oltretomba, già morti ancora prima di aprire bocca. Figure che assomigliano a quelle delle foto dei primi del Novecento che, sbiadite, stanno sulle tombe in molti cimiteri. Scelta lugubre. Ma è pur vero che quella di Gaetano Donizetti è un’opera di fantasmi e di morte. Scelta che porta in avanti, sulla soglia della Prima guerra mondiale le vicende ambientate da Walter Scott nella Scozia del XVI secolo. Idea buona sulla carta, ma debole in scena. Succede. Non è, però, questa la pecca più rilevante della regia, nuova e destinata a rimanere in cartellone anche per i prossimi anni, che Francesco Micheli, al suo primo Donizetti, realizza per il Teatro La Fenice di Venezia. Non c’è parola del libretto che non sia accompagnata da un gesto. Non c’è significato che il regista non spieghi ed espliciti. C’è proprio bisogno di far sdraiare Lucia su una croce quando canta che il matrimonio di interesse che il fratello le impone è per lei un sacrificio sovrumano? Eppure la musica dice già tutto. Basterebbe lasciarla libera di raccontare. Ingabbiandola, invece, si rischia che alla fine tutto diventi scontato e prevedibile. C’è un tavolo in bilico? – perché la scena di Nicola Bovey è una grande catasta di mobili –. Prima o poi cadrà. C’è uno specchio? Qualcuno lo romperà. Ci sono bicchieri di vino rosso? Lucia se li verserà addosso a simulare il sangue del marito trucidato. Peccato, perché musicalmente la Lucia della Fenice è un’operazione riuscitissima. Riccardo Frizza, che guida con mano salda orchestra e coro, mette sul leggio la partitura originale, senza tagli. Non solo filologicamente interessante (c’è anche la scelta della glassarmonica per la scena della pazzia), ma bella da ascoltare. Nadine Sierra, applauditissima, è una Lucia con tutte le note (e anche di più) richieste dalla partitura. Markus Werba offre la sua raffinata musicalità a Enrico, che il regista vuole perennemente in scena. Francesco Demuro usa tecnica ed eleganza per avere la meglio sulla parte di Edgardo.