Tv. Carlo Lucarelli: «Siamo noi il lupus in fabula»
Lo scrittore Carlo Lucarelli conduce su Sky Arte il programma “In compagnia del lupo - Il cuore nero delle fiabe”
Non poteva che partire da Cappuccetto Rosso la nuova avventura di Carlo Lucarelli inoltrandosi nel bosco impervio e oscuro della più antica forma di narrazione, la fiaba. È la suggestiva impresa che il prolifico maestro nostrano del noir ha avviato lunedì sera su Sky Arte con il programma in otto puntate In compagnia del lupo - Il cuore nero delle fiabe, in onda per i prossimi lunedì alle 21.15 e anche on demand e in streaming su Now Tv. Dopo Cappuccetto Rosso si è poi fatto un volo in avanti nel tempo sugli aerei di Antoine de Saint-Exupéry per scoprire quanto di autobiografico, benché traslato, ci sia nel suo capolavoro Il piccolo Principe, il libro più venduto al mondo dopo la Bibbia. E se un fatto vero accaduto nella Francia del Seicento, ossessionata dalla licantropia, sta alla base della storia della bambina alle prese con il lupo cattivo, nel Peter Pan di Barrie (una delle prossime puntate) è presente il frequente fenomeno delle morti premature dei bambini nell’Ottocento e il protagonista è un malinconico angelo della morte (basti pensare all’inquietante e beffardo ghigno del Peter Pan disneyano). «Se la paura è innata, il coraggio dobbiamo conquistarcelo. La fiaba tradizionale aveva questo obiettivo» dice l’ospite della prima puntata di Lucarelli, la sociologa e scrittrice Rosa Tiziana Bruno. «Infatti la paura serve ed è positiva quando poi hai il coraggio di andare a vedere cosa si nasconde, scoprendo in genere che non c’era motivo di avere paura. Sono le porte socchiuse che fanno paura» sottolinea Lucarelli, da decenni indagatore dei misteri interiori e di quelli reali.
Illustrazione di Cappuccetto Rosso, dal programma “In compagnia del lupo” - Tiwi
Cos’è successo oggi alle fiabe? Sono anch’esse superate?
La fiaba tradizionale aveva una funzione formativa che si nutriva anche del racconto orale e della partecipazione diretta di chi narrava, dall’emozione che trasmetteva con l’espressione del viso al tono di voce. Una volta c’era la testimonianza viva. Anche la radio assolveva molto bene a questo compito. Ormai però siamo in una nuova era della comunicazione che per i ragazzi e persino per i bambini ha a che vedere con i social. Così anche le fiabe hanno perso in gran parte la loro storica funzione. Una fiaba fruita attraverso i new media del resto non può trasmettere paura perché è percepita come lontana.
Quando era bambino lei, negli anni Sessanta, andavano molto i dischi di fiabe. Era diverso?
Erano un credibile e verosimile surrogato del racconto orale personale e diretto. Memorabile la serie dei fratelli Fabbri che ascoltavamo con i nostri giradischi o mangiadischi. Un altro bell’esempio, anche se televisivo, era stato il programma Mille e una sera sul secondo canale Rai. Ecco, lo stile delle tavole animate che usiamo adesso nel mio programma si rifanno un po’ ai disegni animati di quei primi anni Settanta. Questo per dire che fino a un certo periodo le fiabe sono state ancora un linguaggio vivo nella società contemporanea. Poi sono via via andate estinguendosi come veicolo formativo. Certo, anche Harry Potter e Il Signore degli Anelli sono fiabe, ma non sembrano avere così insito e centrale l’elemento della paura da superare. E sono più che altro una spettacolarizzazione.
Allora è proprio il caso di dire “c’era una volta”...
Le fiabe tradizionali vengono tutte dal mondo contadino e contemplano una naturale vicinanza con l’idea di morte, che è la quintessenza della paura, ne è la sua dimensione assoluta. Del resto i nonni morivano in casa e i bambini li vedevano, c’era una consuetudine con la morte. Nel mondo contadino c’era un immaginario che contemplava tutta una serie di fatti cruenti. Nel Cappuccetto Rosso che hanno sentito le mie figlie invece il lupo diventa persino vegetariano e nessuno veniva mangiato.
Eppure la morte è assai presente nelle narrazioni mediatiche d’oggi.
Sì, la morte c’è ma è banalizzata. È quella virtuale dei videogames. Non si insegna a considerare la realtà della morte, si fa solo spettacolo con una morte finta e irrealistica, dal momento che in un videogioco si può anche sparare quindici volte a una persona. Le fiabe erano invece più vicine alla realtà, per quanto fosse una realtà in una certa misura anche magica e misteriosa.
Ma erano alla fine davvero così formative le fiabe tradizionali?
Sì, perché raccontavano anche l’importanza degli errori che grandi e piccini potevano commettere. È una riflessione che faccio spesso pensando a quanta fragilità c’è oggi in molti nostri giovani che crollano e si sentono persi di fronte a un qualsiasi “no” della vita, arrivando spesso a commettere atti insani e irreparabili. I nostri genitori e nostri nonni si sono misurati con la guerra e con la fame, noi non abbiamo saputo insegnare ai giovani a saper affrontare le piccole difficoltà. Per questo serve indagare dentro di sé. E la paura, che è innata, è uno strumento di crescita, per scoprire anche i propri lati oscuri e imparare a superarli comprendendoli. Quella sana paura che porta a trovare il coraggio per vincerla.
Di cosa ha paura un giallista come lei?
Noi giallisti curiamo in fondo un aspetto della realtà. Una parte oscura che ci fa paura, ma che vogliamo conoscere possibilmente per cambiarla, così come fanno il medico, lo psichiatra o il carabiniere che sono costretti a occuparsi di cose brutte. Eppure mi è capitato spesso di voler rifuggire da qualcosa che mi stava disturbando troppo. Quando, per esempio, mi occupavo di certi casi di cronaca nera in Blu Notte che avevano a che fare con bambini e adolescenti evitavo di raccontarli. Non riuscivo ad affrontare l’innocenza violata. Poi ho imparato a vincere questa iniziale ritrosia. Fino ad arrivare a fare apposta per superare questa mia difficoltà.
Come fece?
Ricordo quando ho dovuto raccontare la strage alla stazione di Bologna. Se non mi ci calavo emotivamente ne usciva un racconto asettico, fatto di vittime che diventavano numeri. Allora ho fatto scattare una mia molla personale. Guardavo la fotografia di Angela Fresu, una bambina di tre anni, la vittima più giovane della strage. Per una strana coincidenza in quella foto Angela è uguale a mia figlia Angelica quando aveva tre anni. Benché mi creasse un disturbo emotivo fortissimo, questa circostanza mi servì a narrare.