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Il comico. Luca Bizzarri: «La satira in tv? È quasi morta»

Massimiliano Castellani giovedì 22 agosto 2024

Luca Bizzarri

Per il grande pubblico Luca Bizzarri è semplicemente Luca della storica coppia di comici e conduttori televisivi Luca e Paolo (Kessisoglu). Un cammino artistico cominciato in teatro, allo Stabile di Genova, dove agli inizi degli anni ’90 Luca incontra l’altro allievo, Paolo, e insieme formano il gruppo cabarettistico “I cavalli marci”. Poi il cinema (le commedie E allora mambo e Tandem), i grandi eventi (Festival di Sanremo 2011), la tv (la serie cult Camera café), e il ruolo attuale di satiri e dissacratori della politica a Dimartedì (La7) nel salotto di Giovanni Floris. Poi c’è il Luca Bizzarri scrittore, autore del romanzo Disturbo della pubblica quiete (Mondadori) e ora di Non hanno un amico (Mondadori, pagine 342, euro 19,50), diario minimo di un “militante” che quando «al mattino si sveglia e prende un caffè dallo scaffale dell’Esselunga solidale, ché costa un po’ di meno». E qui viene fuori l’anima genovese che satireggia e rilegge la storia a modo suo, come nel capitolo “Mi avete preso per un Cleone”, in cui paragona il politico e militare ateniese del V secolo a. C “a un De Luca ancora più rozzo, ancora più ignorante”

Leggendo Non hanno un amico si ride, ma tra le righe c’è quella sottile amarezza gaberiana, tipo “mi fa male il mondo”...

«Più che male, io provo un senso di colpa, perché l’Italia di oggi è la causa dei nostri errori. Per noi, intendo la mia generazione, la quale aveva tutti gli strumenti per cambiare e fare qualcosa di meglio ma c’è mancata la voglia di impegnarci. Gaber e la sua generazione invece si erano impegnati, forse fin troppo. Una volta ascoltai una sua lunga discussione a Radio Popolare e c’erano quelli che gli dicevano che non era abbastanza di sinistra e lui rispondeva cantando Al Bar Casablanca «parliamo, parliamo, di rivoluzione di proletariato, la barba sporcata da un po' di gelato».

Era il tempo in cui c’erano le parole giuste, e «pensare che c’era il pensiero».

«Noi abbiamo rifiutato l’uno e l’altro, il pensiero e la parola. Il no al dibattito “morettiano” è stato sostituito dallo scontro tra tifoserie: ognuno alza il coro per non far sentire la voce dell’altro. Vince chi si indigna di più, ma resta indignazione senza costruzione. C’è una lunga descrizione di Paolo Nori nel suo romanzo I malcontenti che semplificata dice: i nonni dovevano lavorare per vivere, i nostri genitori contestare per cambiare il mondo e poi siamo arrivati noi figli e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo...».

Nel libro denuncia che siamo tutti schiavi dei social, ma il record di presenzialismo spetta a politici come Matteo Salvini.

«No, i veri recordman sono il deputato leghista Alberto Bagnai e il senatore Claudio Borghi: sono da primato mondiale, hanno una media di un tweet di 20 minuti per 365 giorni all’anno. Ma come loro ci sono tanti mitomani in circolazione che pensano ormai che il mondo abbia un senso solo se stai dentro i social. Borghi addirittura ne parla come del suo “posto di lavoro”, convinto che se va bene sul virtuale allora deve funzionare anche nella vita reale. Ma gli esseri più intelligenti non vivono sui social. Basta pensare a uno dei presidenti del Consiglio che ha avuto e continua ad avere il maggior consenso popolare, Mario Draghi, be' lui non esiste sui social e non ha mai fatto niente per esserci».

Assieme a Paolo siete gli ultimi difensori del diritto di satira in tv.

«Non so se siamo gli ultimi, ma di sicuro la satira è morta sui canali Rai. Per il resto sopravvive sul Nove con Maurizio Crozza e in qualcosa di Propaganda di Diego Bianchi su La7. E questo è abbastanza spiazzante, un brutto segnale che ci dice: la politica non sopporta più la satira, non la vuole. Il nostro programma giornaliero in Rai venne chiuso, non per la satira politica ma per occupazione degli spazi televisivi. Sono cresciuto ascoltando Radio Radicale e seguendo la lezione di Massimo Bordin che fustigava quella classe politica che oggi rimpiango, in quanto era culturalmente gigantesca. Oggi non chiedo un Aldo Moro che vada in spiaggia in giacca e cravatta, però vorrei rivedere quella politica più presentabile, in cui un parlamentare parlava ancora in italiano e alla gente. Trovarsi adesso di fronte a questa pochezza intellettuale è deprimente, il problema è un pensiero diffuso e distorto da campagna elettorale perenne».

A Paolo Villaggio lei dedica un capitolo sull’esegesi del personaggio Calboni, il capoufficio di Fantozzi.

«L’unico errore di quel gran genio di Villaggio è aver pensato che gli italiani sono un po’ tutti dei Fantozzi e invece in circolazione ci sono molti più Calboni. L’uomo più realista del re che per stare sempre a galla e conservare la sua rendita di posizione non rinuncia mai al sorriso del Megadirettore».

La mediocrità al potere, a scapito della meritocrazia. «Uno Stato meritocratico da noi non c’è ma quelli davvero bravi alla fine ce la fanno, lavorano e arrivano fin dove gli spetta, e per merito. E vale anche nel mondo dello spettacolo, come diceva Diego Abatantuono nel film Turné: “Gli attori bravi i provini non li fanno”».

Nel libro scrive «i giovani di oggi non li capisco», eppure lei è un personaggio che a loro piace tanto.

«Ci sono cose, che documento e invito i ragazzi a leggere, che non capisco. I ragazzi mi vedono più giovane di quello che sono perché ho dei prodotti che funzionano ancora, come Camera café, una “sit” di grandissimo successo. Riproporla? Con Paolo abbiamo registrato 1.800 episodi e in almeno 800, pur avendo messo titoli diversi, gli argomenti erano quasi in fotocopia. Alla fine il rischio è che non sai più cosa scrivere».

Nel libro chiede anche alla scuola di continuare a scrivere i voti sui compiti in classe.

«La scuola è materia che tratto spesso con le mie due nipoti alle quali dico che trovo assurdo abolire i voti. Ma come, persino Giorgio Terruzzi nei suoi articoli sportivi dà i voti ai calciatori o ai piloti di Formula 1. Sono testimone di cose folli, tipo l’eliminazione del rosso perché turba i bambini, mentre la penna verde è più rassicurante. Io davanti a quelle robe lì divento pazzo. Conservo un libro di musica di quando ero ragazzino e sulla copertina c’è la scritta “Asino” con la firma della mia prof. Se lo facesse oggi e per di più con la penna rossa, i genitori la lincerebbero».

Dinanzi alla deriva rap lei ha nostalgia dei versi poetici...

«Cito Rimmel di De Gregori, pensando a Dalla, De Andrè e ai cantautori che hanno scritto testi poetici. I rapper adesso fanno canzoni tutte dritte. Vogliono fare i duri ma poi gli escono canzoncine per bambini. È questione di mercato».

Lei è credente?

«Resto un radicale mangiapreti ma, pur con i miei dubbi, ho il massimo rispetto per tutte le fedi. Mi affascinava molto don Gallo, anche se abbiamo avuto qualche scontro, però oggi ad avercene uomini di Chiesa come lui. Mi piaceva anche ascoltare Benedetto XVI, perché da asino ripetente subisco il fascino della cultura e lo spessore che c’è dietro a certe menti molto illuminate».

Però Bizzarri è stato direttore del Palazzo Ducale di Genova, e con ottimi risultati.

«All’inizio mi davano tutti addosso. Per cinque anni non ho dormito la notte, poi il crollo del Ponte Morandi e il Covid hanno reso tutto più difficile, ma sono stato bravo nello scegliere le persone giuste e alla fine ne siamo usciti vivi, con i conti a posto e facendo un buon servizio culturale a Genova».

E adesso, dopo i libri e la televisione, che cosa farà?

«Quando faccio i bilanci mi viene sempre in mente Beppe Grillo che parlava della moglie del tangentista Poggiolini la quale girava con due lampadari alle orecchie ed era sempre troppo poco. Anche per me non è mai abbastanza quello che faccio. La scrittura con il mio podcast giornaliero mi ha fatto capire che se ti leghi alla sedia e scrivi, allora ogni giorno ti accorgi che scrivi sempre meglio. Non credo di avere il talento di Fabio Volo che da solo mantiene tutta l’editoria italiana, però sto scrivendo un altro romanzo. E poi conto di tornare a fare il teatro, che è un ripartire da dove ho cominciato, ma sempre con due lampadari alle orecchie».