Rugby oltre le sbarre. Nel carcere di Rebibbia la palla ovale non è più "prigioniera"
La squadra nel campo del carcere di Rebibbia
Nel rugby, chi gioca all’ala ha un ruolo cruciale. Dev’essere agile, veloce e abile nell'afferrare al volo la palla ovale e insieme l’occasione giusta, che può portare la squadra a segnare una meta. Mirko, la sua occasione l’ha artigliata con forza, insieme alla palla. E ora corre veloce, sulla fascia sinistra, con la maglia numero 11 dei Bisonti. I suoi scarpini graffiano il terreno del campo in pozzolana, sollevando nuvolette di una polvere fina, che si attacca alla maglia e alle gambe madide di sudore. Ma Mirko non ci bada neppure e, sbuffando come un treno, punta verso la linea di meta. I compagni gli corrono a fianco e lo incitano, mentre cerca di scansare un avversario. Le mura e le recinzioni perimetrali del penitenziario romano di Rebibbia circondano il campetto polveroso del «G9», ma lui non le vede, guarda oltre. È mercoledì, il giorno del permesso accordatogli per allenarsi: dopo il training mattutino in carcere, dalle sette alle undici di sera potrà uscire per la sessione serale sui campi di Tor Bella Monaca, insieme al resto della squadra. Mirko lo fa già da tre settimane, da quando la società dei Bisonti Rugby (nata a Frosinone nel 2011) ha ricevuto l’autorizzazione dal direttore del carcere.
Grazie a un'intesa si gioca in 18 carceri
Un effetto positivo, uno dei tanti, del progetto federale «Rugby oltre le sbarre», creato con l’obiettivo di contribuire, attraverso l’applicazione concreta dei valori educativi di questo sport, «alla risocializzazione del detenuto». Mirko è dentro da undici anni e dovrà scontarne altri due. Il primo allenamento fuori, rigorosamente dalle 19 alle 23, l’ha sostenuto il 17 aprile. È la sua 'finestra di libertà' settimanale. E non è un privilegio, se l’è guadagnata con un comportamento corretto che qui dentro chiamano 'buona condotta'. Così, con un 'adattamento' dell’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario (che consente il lavoro esterno dei detenuti) la direzione della casa circondariale gli ha concesso di allenarsi fuori, sotto la responsabilità dei Bisonti Rugby. «L’autorizzazione per Mirko è il raggiungimento di uno dei nostri obiettivi – considera Germana De Angelis, presidente dei Bisonti –. Il rugby può essere uno strumento per la ricostruzione di un percorso di vita». Parliamo di esistenze da rifondare su basi solide, dopo che bufere personali e gesti criminali le hanno devastate. «Non siamo noi a scegliere le persone, ci arrivano a seguito di una valutazione dell’amministrazione penitenziaria. A noi interessa solo che abbiano voglia di giocare e di entrare con noi nello spirito del rugby». Grazie a un protocollo siglato nel 2018 fra Federazione italiana rugby e Dipartimento amministrazione penitenziaria, il gioco della palla ovale viene praticato in 18 istituti di pena. E ci sono due squadre di detenuti (La Drola di Torino e Giallo Dozza di Bologna) che partecipano al Campionato italiano di serie C, disputando tutte le gare sui campi dentro le carceri. «Il rugby è uno sport straordinario, capace di appianare ogni differenza sociale» e di far percepire a chi lo pratica il senso di rispetto per le regole, per i compagni e per gli avversari, ragiona il presidente della Fir Alfredo Gavazzi.
"Non giudichiamo, tendiamo una mano"
L’obiettivo, aggiunge Germana, è quello di camminare accanto ai detenuti «e possibilmente di continuare a farlo fuori dalle mura. Non entriamo mai nel merito dei reati commessi perché non siamo lì per giudicare. Qualcuno lo ha già fatto e loro stanno scontando la loro pena». È un «tendere una mano, in questo caso attraverso il rugby, a chi ha la voglia di andare avanti». Mirko quella voglia ce l’ha. E la storia passata di errori e reati se l’è lasciata alle spalle. Ai suoi compagni di gioco, comunque, il passato non interessa: «Non chiedo mai a chi incontro per quale tipo di reato sia dentro, il solo fatto di conoscerci attraverso un pallone ovale e su un campetto vuol dire che un cammino è stato già fatto – dice ancora Germana – Così sta accadendo con Mirko e speriamo che accada con altri, per cui abbiamo fatto la stessa richiesta». Poi la presidentessa sorride, mentre osserva il numero 11 che s’invola sulla fascia. Ancora una volta, caparbio, Mirko punta alla meta. Nell’incavo del braccio, tiene stretta una palla che presto non sarà più prigioniera.