Storia. Traiano, l'«ottimo principe» che sterminò gli ebrei...
Statua di Traiano a Castra Vetera, città romana nei pressi dell’odierna Xanten (Germania) elevata dallo stesso Traiano al rango di colonia romana con il nome di Colonia Ulpia Traiana
L’imperatore Tito, «delizia del genere umano»; l’imperatore Traiano, «ottimo principe». Si tratta di sovrani che dalla tradizione storiografica romana senatoriale (in genere poco tenera con gli Augusti) fino ad oggi, attraverso Medioevo, Rinascimento e storiografia moderna, sono sempre stati considerati in modo si può dire unanime come abili statisti e come personaggi umanamente di alto profilo, come Marco Aurelio e non molti altri. Non che si debba cedere a istanze che oggi qualcuno denominerebbe – a torto, del resto – “revisionistiche”. Diciamo semplicemente che la storia, come gli esami, non finisce mai. Conosciamo passabilmente bene la storia ebraica e, in particolare, gli anni tumultuosi delle due Guerre giudaiche, dalla rivolta scoppiata nel 66 ancora sotto Nerone e culminata nell’assedio a Gerusalemme da parte di Vespasiano e con la distruzione del Tempio di Gerusalemme appunto gestita nel 70 da suo figlio (e poi erede al trono imperiale) Tito – durante la quale, per quanto avesse le sue buone ragioni, la «delizia del genere umano » si comportò in maniera abbastanza pesante – sino al fatale 135 che vide Gerusalemme letteralmente rasa al suolo dall’imperatore Adriano: una pagina che Marguerite Yourcenar non ha osato descrivere nel romanzo a lui appunto dedicato. Tra queste due date corrono sessantacinque anni durante i quali la diaspora del popolo ebraico, già da prima avviata, divenne definitiva e – fino ad oggi – irreversibile: pur ammesso che quel che sta accadendo dalla fine Ottocento ad oggi, e che ha avuto un suo momento nodale nel 1948 e nella fondazione dello Stato ebraico d’Israele, possa obiettivamente venir considerata, dal punto di vista storico e antropologico, un “ritorno” e non un capitolo del tutto nuovo nella storia dell’ebraismo e nella non facile genesi della sua profonda e al tempo stesso polimorfe cultura identitaria. All’interno di quelle due date accaddero però molte cose: una soprattutto, un dramma non troppo studiato né conosciuto, per quanto ne trattino storici d’una qualche importanza quali Appiano e Dione Cassio nonché naturalmente le fonti ebraiche. Si tratta di una vera e propria rivolta delle comunità ebraiche di Cipro, Siria, Egitto e Cirenaica, di quelle cioè che dopo la profanazione del Tempio erano rimaste nella Città Santa o si erano tenute più vicine possibili ad essa all’interno dell’impero romano (altre avevano preferito rifugiarsi in “Babilonia”, cioè nell’impero partico).
L’episodio è stato ora ricostruito con attenzione da Livia Capponi, docente di Storia romana nell’Università di Pavia ed esperta soprattutto di storia dell’Egitto ellenistico-romano. Già nel 2017 la professoressa Capponi ha edito un interessante studio monografico dedicato a Il ritorno della fenice. Intellettuali e potere nell’Egitto romano (Ets); ora, con il suo Il mistero del Tempio. La rivolta ebraica sotto Traiano (Salerno, pagine 128, euro 14,50), c’introduce alla conoscenza di un evento che contribuisce fra l’altro anche a chiarire gli antefatti della Seconda guerra giudaica, deflagrata nel 132. Con Tito, la Giudea era stata ridotta a provincia retta da governatori di rango senatorio. Ma i confini orientali dell’impero rimanevano un problema. Traiano, dopo aver sottomesso nel 107 la Dacia con le sue straordinarie risorse auree e aver fondato l’anno prima la provincia dell’Arabia Petrea per assicurare l’instabile confine sudorientale, aveva colto al volo la crisi scatenata nell’impero partito tra il nuovo Gran Re Cosroe e suo nipote Axidare, re d’Armenia: fra 113 e 116: occupata la capitale partica Ctesifonte, egli ridusse a province l’Armenia, la Mesopotamia e l’Assiria. Durante quella campagna Traiano curò di trarre dalla sua le comunità ebraiche disseminate nell’impero partico sostenendole finanziariamente e organizzando addirittura una nuova strada che avrebbe loro consentito di rientrare in Palestina. Tuttavia, qualcosa non funzionò: le popolazioni tanto ebraiche quanto greco-siriache dell’area si resero presto conto che il nuovo padrone non solo non avrebbe facilitato il reinsediamento delle comunità ebraiche in Eretz Israel, ma sarebbe stato più duro di quello vecchio; e le comunità ebraiche sparse tra Siria, Egitto e Vicino Oriente (a cominciare da quella che ancor sussisteva a Gerusalemme dopo il saccheggio del Tempio) non poterono se non confermarlo.
Ne nacque una rivolta che infuriò due anni circa, tra 116 e 117, interessando Cirenaica, Egitto e Mesopotamia. Gli ebrei che avevano confidato nella magnanimità romana e che perciò avevano sostenuto Traiano nella guerra contro i Parti ebbero modo di abbondantemente e amaramente ricredersi. Il libro si conclude con la magistrale rinarrazione tratta dai testi midrashici della favola del leone e della gru che Fedro aveva preso, rimaneggiandola da quella esopica, del lupo e dell’airone. Un leone aveva inghiottito un osso che gli si era conficcato in gola; chiese a una gru di liberarlo con il suo lungo becco promettendogli una ricompensa. Ma quando si trattò di riscuotere, il maestoso felino chiese al volatile se non gli bastava di aver estratto incolume la testa dalle sue terribili fauci. La morale era trasparente: mai aspettarsi qualcosa di buono da un malvagio, nemmeno se egli promette. Fedro ed Esopo, per la verità, avevano parlato di un lupo come protagonista della favola, ma i testi ebraici, sostituendo il lupo con il leone, avevano voluto con chiarezza alludere a un animale “regale”: all’imperatore. Di tali testi, di solito riferiti all’età di Adriano e alla Seconda guerra giudaica, la Capponi propone una predatazione che consentirebbe di riferirli non alla violenza di Adriano, bensì alle promesse mancate di Traiano.