Musica. Lorenzo Viotti: «Sul podio più che l'età conta l'esperienza»
Il direttore d'orchestra Lorenzo Viotti (©Gulbenkian Musica/Márcia Lessa)
In molti pensano che sia italiano: «Per via del mio bellissimo nome… Poi scoprono all’improvviso che non lo sono quando sentono il mio accento ». Il nome è quello di Lorenzo Viotti. Figlio del compianto Marcello (scomparso nel 2005), nel corso degli ultimi due anni è rapidamente passato da promessa della direzione d’orchestra a presenza affermata sui maggiori podi europei: Dresda, Lipsia, Londra, Parigi, mentre a ottobre farà il suo debutto con la Filarmonica della Scala. Lorenzo Viotti è svizzero di Losanna e ha 28 anni. In questi giorni è in tournée in Europa con la Gustav Mahler Jugendorchester e il violoncellistaGautier Capuçon. Una serie di concerti che ha avuto come "incubatrice" Pordenone e il Teatro Verdi, sede della residenza estiva. Qui Viotti e la GMJO torneranno con due concerti il prossimo 3 e 4 settembre .
Le orchestre e il pubblico la vedono come un direttore “giovane”?
«È una domanda che non mi pongo: io sono ciò che sono. Ma che io “appaia” giovane è un fatto. Qualcuno resta sorpreso. È una reazione normale: non si aspettano che uno della mia età percorra questa carriera professionale. Da un punto di vista astratto, 28 anni sono un’età giovane. Ma da sola l’età non vuol dire nulla. Ciò che conta davvero è l’esperienza. Non è colpa o merito di nessuno, ma ciò che hai vissuto può farti maturare prima di altri. Ciò che conta è solo la musica, raggiungere un suono migliore, un livello di musicalità più alto».
Secondo lei c’è differenza tra musica classica e le altre musiche?
«Già agli albori della civiltà la musica è diventata un’arte, ossia la possibilità di comunicare le emozioni solo con il suono. Se ci riferiamo ai tempi moderni e ai vari generi, dal jazz al rock al pop, chi fa musica tutto sommato cerca ancora la stessa cosa: dire cose che le parole da sole non possono esprimere. Detto questo, io non credo che la musica sia universale. Penso che la musica, anche oggi, sia un “divertimento”, un momento in cui gustare con le nostre orecchie un suono specifico. Ma non penso che la musica classica sia “per tutti”. Come c’è chi non è in grado di apprezzare l’hard rock. La musica classica indiana è un’arte nobilissima, ma non sarei in grado di restare ad ascoltarla per cinque ore consecutive… La musica è uno strumento fantastico per dare emozioni come anche per vivere momenti di leggerezza. Ma per al- cune persone, per altre no: e questo è molto importante perché spesso si pensa e si dice che la musica classica sia una arte nobile che tutti dovrebbero ascoltare».
Perché ha scelto la musica classica?
«A dire il vero, non penso di avere “scelto” la musica classica. Per nostra fortuna io e i miei fratelli in famiglia, fin da piccoli, abbiamo potuto ascoltare molti tipi diversi di musica, anche con mio padre. La musica classica era l’arte principale e siamo stati fortunati a poter nascere e crescere in quell’atmosfera. Ma i nostri genitori ci hanno dato la possibilità di apprezzare, o meno, tutti i generi. Io mi occupo di musica classica, ma amo moltissimo l’hip hop. Abbiamo potuto scegliere uno strumento, senza forzature. Io ho cominciato con la batteria, suonando molto jazz e funk, per poi passare alle percussioni. Ma sono sempre stato affascinato dalla direzione: non so perché, era una cosa innata. La morte di mio padre non ha davvero pesato sulla scelta di continuare a fare musica classica. Forse non ero davvero interessato a continuare a essere un batterista, forse non era per me o non ero così coinvolto nel suono, non so…»
Pensa di avere imparato qualcosa, come direttore, da questa esperienza come batterista?
«Certamente. È stata la mia scuola. Ho studiato canto per sviluppare il mio strumento vocale ma anche per essere pronto a lavorare con i cantanti quando avrei diretto un’opera. Ho cantato in un coro a Vienna, con il quale ho eseguito il repertorio sinfonico più importante, lavorando con maestri straordinari. Così ora quando dirigo un brano con il coro in qualche modo so come farlo, so come si sta dall’altra parte. E così è stato con le percussioni, che ho suonato nei Wiener Philharmoniker nell’Orchestra di Lione. Conosco la psicologia di una comunità, ho ascoltato molti grandi direttori provare con me. La direzione d’orchestra la si impara nella pratica, è una verità basilare. Ma la preparazione offertami dal stare dentro un’orchestra è davvero insostituibile».
Nel 2017 lei è stato direttore assistente della GMJO, in questa tournée ne è il direttore principale. Cosa cambia nel rapporto con l’orchestra?
«La mia responsabilità era preparare l’orchestra al meglio delle mie possibilità, perché il direttore principale trovasse una base tecnica e di conoscenza ideale su cui lavorare. Ma non ho cambiato il modo di lavorare da un anno all’altro perché ora è il mio turno come direttore principale. Io mi comporto con loro come se fossero un’orchestra di professionisti. Sui leggii c’è un repertorio vasto e complesso. Quando sei all’inizio della carriera il tasso di competizione è molto alto e forse alcuni di loro non avranno mai più la possibilità di suonare la Quinta di Mahler o Le Sacre du printemps. Il programma contempla molti modi diversi di suonare. Wagner, Debussy, Čajkovskij, Šostakovič… Il Sacre è per me l’apice dello sviluppo di un compositore nel secolo scorso. In Mahler non dovresti – ed è quello che chiedo loro – suonare ciò che è scritto, ma suonare ciò che significa. Che è completamente diverso da quanto accade in Debussy, dove devi assolutamente rispettare ciò che è scritto per restituire al pubblico la sensazione del significato. Rispondere in modo ideale a ognuno di questi modi diversi di pensare la musica è la sfida più grande. E per questo ho chiesto alla direzione artistica dell’orchestra di non avere un assistente e di essere qui fin dall’inizio. Così posso partire subito con loro e seguirli passo passo. È un processo di straordinario interesse. E io stesso imparo moltissimo».