Agorà

Carteggi. Longhi tra Zeri e Briganti, lettere e dissensi

Maurizio Cecchetti sabato 5 febbraio 2022

Roberto Longhi da giovane

Nel 1994 passai un po’ di tempo a Mentana, in casa di Federico Zeri, dove mi ero recato per mettere a punto con lui una serie di pezzi che avrebbe dovuto scrivere sui Musei diocesani e d’arte sacra per questo giornale. La cosa poi sfumò, ma durante quei due o tre giorni a Mentana ebbi modo di parlare a lungo con lui dei nostri beni culturali e di molto altro. Oltre alla statura di storico e conoscitore, possedeva una certa verve di commediante nato: era l’epoca in cui andava in televisione con Roberto d’Agostino, indossando vistosi caffettani, forse per rifarsi su Sgarbi che in una puntata del Costanzo Show gli aveva augurato la morte.

Zeri mi raccontò aneddoti e manifestò giudizi su alcuni suoi colleghi, che talvolta mi erano già noti perché facevano parte della mitologia del Professor Zeta, ma in qualche caso arrivarono alle mie orecchie come vere bordate. Quelle su Roberto Longhi erano per lo più note: quel giorno lo definì «uomo di mondo», senza dubbio un maestro, ma umanamente un «miserabile». Era il veleno che ancora gli correva in corpo per aver subito da Longhi un immeritato contrappasso quando cercava di intraprendere la carriera universitaria.

Ma, oggi, scorrere il volume che raccoglie il loro carteggio dal 1946 al 1965, Lettere, edito da Silvana (pagine 616, euro 32), a cura di Mauro Natale – come primo di una serie di volumi che nasceranno dal «riordino dell’archivio Zeri», ricorda il nipote Eugenio Malgeri nella premessa –, ecco, si ha l’impressione di addentrasi in una storia che forse abbiamo già dimenticato ma è anche la storia dell’Italia e del suo rapporto col proprio patrimonio d’arte già allora, nel dopoguerra, trascurato. Quanti articoli di Zeri abbiamo letto sulla “Stampa” negli anni Ottanta e Novanta, dove aveva dichiarato guerra alla mala gestione del patrimonio artistico o all’azione indiscriminata dei restauratori, che, come scrive già in una lettera a Longhi, “pelavano” la superficie pittorica.

Da questo carteggio scopriamo che il giovane Zeri era un talento prodigioso, libero nel giudizio e poco in soggezione rispetto a chi aveva scritto, interpretato, attribuito, collegato, mancato la scoperta di opere che fino a quel momento mai avevano trovato un’attenzione così specifica e una convinzione così fondata, tanto che lo stesso Longhi ne era impressionato (Zeri gli era stato presentato da Briganti nel 1946, e subito era cominciato quel fitto dialogo epistolare). Il maestro lo leggeva con vero interesse, ma un allievo dotato è come un figlio che deve liberarsi dell’ombra del padre. Come? La psicoanalisi direbbe uccidendolo simbolicamente.

Dopo aver raggiunto la notorietà negli anni Cinquanta con cataloghi importantissimi, persino maggiore nei paesi anglosassoni che in Italia (dove invece aveva molti nemici), a finire sotto la sua lente fu lo stesso Longhi, con alcune revisioni delle sue attribuzioni e ricostruzioni che il maestro non gradì. Quando Longhi nel 1948 aspirava a ricoprire la cattedra di Storia dell’arte medioevale all’Università di Roma, lasciata libera da Pietro Toesca (gli venne preferito Mario Salmi), Zeri confessò per lettera tutta la sua desolazione. Ma è Longhi che quasi lo conforta con un «Non te la prendere. Avrai tempo anche tu a digerirne per tuo conto nella vita». E Zeri dev’essersene ricordato quando nel 1953, prossimo all’esame per la Libera docenza e con la speranza di entrare in università, si rendeva conto che gli sarebbe stato molto utile avere pubblicazioni più voluminose rispetto ai singoli saggi pure illuminanti che aveva fin lì pubblicato, poiché le congreghe accademiche valutano con «il metro del peso e della lunghezza», e a Longhi confessa (come una sorta di velata supplica, poiché il maestro dirige la collana di Storia dell’arte di Sansoni): «a meno che il Catalogo della [galleria] Spada non sia stampato per il momento dell’esame e io non abbia presentato in manoscritto quello, interminabile, della Galleria Pallavicini». Il primo uscirà a marzo del 1954 e il secondo, pur consegnato nel 1956, soltanto tre anni dopo. Longhi aveva colpe sulla mancata cattedra di Zeri? Lui lo pensò. E forse aveva ragione.

Federico Zeri nella sua biblioteca a Mentana - .

Fin dall’estate 1946 Zeri aveva manifestato apertamente a Longhi la sua insofferenza per il «letargico ambiente della scuola di perfezionamento, dove – a parte l’ostinata scontrosità di Toesca e l’insulsaggine di Lionello [Venturi] – regna l’atmosfera più pestilenziale e scoraggiante» e il maestro, scrive Natale, pur diffidente fu sedotto dal « rag-time dell’indescrivibile, ciaramellante connoisseurship di Federico Zeri» (lettera di Longhi ad Arcangeli del 1947). Ma come ha notato Mina Gregori – e può forse stupire – «è un errore credere che nel dopoguerra fosse il fascino letterario di Longhi ad attrarre gran parte di noi giovani... Partendo da formazioni diverse, ognuno di noi intendeva seguire la bussola infallibile del suo occhio».

La notazione sulla scrittura apre scenari che possono essere anche all’origine del distacco di Longhi da Zeri, quando questi guadagna grande stima nel mondo anglosassone: Zeri conquistò in quel mondo – scrive Natale – «un’autorità che Longhi non ha mai raggiunto, anche per la difficoltà di tradurre in altri idiomi la sua ricercata lingua scritta». E questo forse creava qualche gelosia nel maestro. Le prime lettere tra i due denotano unità di visioni e intenti, per esempio quando nel primo dopoguerra Zeri descrive lo stato disastroso di alcune Gallerie di Roma, la Spada in particolare. O quando fa scoperte memorabili come il ritrovamento della parte mancante della predella della Pala di Sant’Antonio abate del Maestro dell’Osservanza. Ma quando poi negli anni Cinquanta Zeri si dedica a Girolamo Siciolante e il «classicismo mistico» di alcuni pittori romani vicini alla Controriforma, da cui approderà al celebre saggio su Scipione Pulzone, Pittura e Controriforma, i rapporti s’incrinano (in una lettera del 1950 Longhi rifiuta di pubblicare su “Paragone” il saggio di Zeri su Siciolante, ma poi nel 1954 accetta una parte del saggio su Pulzone dedicato a Giuseppe Valeriano dove compare l’espressione «misticismo della ragione», esprimendo un lapidario consenso: «Ricevuto. Pubblicherò come tu desideri»). Tutto cambia, e quando nel 1961 Longhi trasferisce “Paragone” a Rizzoli, Zeri abbandona rifiutando di «restare nella Redazione di una rivista pubblicata da un Editore che si fregia di “Candido”, “Oggi”, e simili». Altri tempi, lontani sul piano etico, rispetto ai caffettani e a Sbucciando piselli, il libro scritto a quattro mani con D’Agostino. Ma questa è tutta un’altra storia, è l’atto scaramantico del Professor Zeta contro le iettature di Sgarbi al Costanzo Show.


BRIGANTI, CORRISPONDENZE CON INDOVINELLI D'ARTE


Chi ha avuto la fortuna, ma dovrei dire la ventura, d’incontrare un longhiano in cattedra, magari perché studiava storia dell’arte e doveva sostenere l’esame con quel professore, sa che il tormentone ancora in essere fra gli adepti di quella che, avendo il suo gran sacerdote va intesa quasi come una setta, è l’indovinello. A me capitò molti anni fa, seguendo un corso universitario di Anna Ottani Cavina, di essere coinvolto in questo gioco – serissimo, come tutti i giochi che contano –: la professoressa proiettava un dettaglio, molto limitato, così da non essere immediatamente riconosciuto, e chiedeva ai suoi allievi d’identificare l’autore e l’opera d’arte cui apparteneva. Quella volta, era un dettaglio in stile molto rigoroso, quasi razionalista: Georges de La Tour, Donna che si spulcia, il punto d’incrocio degli assi di seduta e schienale. Pochi, o forse nessuno, se ricordo bene, indovinò. Non era affatto facile, ma con questi giochi Longhi aveva allevato generazioni di nuovi studiosi di storia dell’arte.

L'indovinello pubblicato sul primo numero di "Paragone" (1950), composto da Briganti - .

Fino a poco tempo fa si credeva che il gioco fosse completamente frutto della mente sadica di Longhi, invece le ricerche – seguendo anche alcune dichiarazioni del vero inventore – hanno rivelato che l’indovinello multiplo, un vero rebus, fu una idea di Giuliano Briganti, l’allievo che si vedeva spesso con Longhi, fin da bambino, perché il padre Aldo era amico del grande storico fin dalla giovinezza, e insieme avevano formato in piena Grande Guerra una sorta di società sfruttando le loro qualità di conoscitori di cose d’arte per farci sopra un po’ di soldi. Briganti quel gioco l’aveva proposto a Longhi mentre si stava mettendo insieme il primo numero di “Paragone”, 1950: era il fotomontaggio di 15 dettagli presi da varie opere (probabilmente, fu uno sviluppo dell’abitudine di Longhi di mostrare angoli di foto a bruciapelo, mettendo alla prova allievi e conoscitori). Chi risolveva l’enigma aveva in premio un abbonamento annuale alla rivista. L’impresa portò via a Briganti parecchio tempo, alla provocazione risposero in tre, uno solo di questi riuscì a indovinare, tale Gilberto Ronci, che farà una rapida carriera ma morirà precocemente. Il gioco finì subito e non venne più rinnovato.

Al famoso indovinello dedica ora uno scritto Laura Laureati nel volume dove pubblica per la prima volta il carteggio fra Longhi e Briganti, in tutto 66 lettere (29 più un telegramma, quelle del maestro, 36 quelle dell’allievo, dal 1939 al 1969). Incontri. Corrispondenza 1939-1969, di oltre duecento pagine (euro 18), esce in tandem dallo stesso editore, Archinto, col volume di Briganti che riunisce, sotto la cura di Giovanni Agosti, tutti gli scritti che lo studioso dedicò al maestro tra il 1955 e il 1991 (Roberto Longhi, pagine 162, euro 18).

Giuliano Briganti - .

Il rapporto tra maestro e allievo prevede che il primo usi il “tu” e l’altro invariabilmente il “Lei”, nota Agosti. Dev’essere un motivo classico che fonda una mitologia, perché anche il carteggio con Federico Zeri rispetta lo schema. Aspettiamo di leggere il carteggio di Longhi con Giovanni Testori (che Agosti preannuncia, in una nota, di prossima uscita da Feltrinelli a cura di Davide Dall’Ombra), per vedere se “el Testùr” – così Longhi – si rivolgeva al maestro in modo più confidenziale: non fu forse Testori che Longhi, pieno di dubbi esistenziali, chiamò una sera per condividere una “notte dell’Innominato” interrogandosi sul dopo, l’oltre? Leggeremo.

Su Briganti agisce come figura ingombrante il padre, antiquario e studioso che spediva il figlio all’estero, a Londra o a Parigi, per recuperare e acquistare opere, e purtroppo morì suicida. Di questo peso che il figlio si porta sulla schiena sembra venire conferma – come ricorda Agosti – da un articolo uscito sul “Corriere” a firma di Testori: Briganti, critico al centro dell’arte suo malgrado.

Due, i fili conduttori, a mio parere, del carteggio: da un lato, il retroterra psicologico che illumina certe “discontinuità” di lavoro nel percorso di Briganti, con pause a volte lunghe e silenziose, da cui Longhi lo pungola a uscire – si spiega così, in forma di malinconico transfert paterno, l’attenzione di Briganti per il versante “psicologico” dell’arte dal Settecento in poi (Longhi non gradiva), che genera un saggio ancora oggi illuminante come I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica e segue la predilezione per la pittura di Alberto Savinio, invisa a Longhi.

Dall’altro lato, la ferma e perdurante ricerca consolidata nel saggio Pietro da Cortona o della pittura barocca, che finì – come dirà lo stesso Briganti in una lettera a Longhi del 1956 o ’57– per fare del grande artista «un semplice filo conduttore che mi ha servito per una analisi di vari aspetti del Seicento». Se negli anni Sessanta fra sociologie ed emergenti strutturalismi si tendeva a ridurre la critica e la storia dell’arte a nuovi “sistemi”, ecco che scrivendo l’introduzione agli Scritti giovanili di Longhi, primo volume delle Opere complete, Briganti, a proposito del culto della personalità – rifiutato da chi mira a risolvere tutto nell’epoca e nel contesto sociale –, può scrivere che «l’arte è il solo campo ove esso sia non dico giustificato ma vorrei dire imprescindibile», però equilibrando la prospettiva con la convinzione (uno dei punti fermi anche di Zeri), che «l’opera d’arte è un capolavoro squisitamente relativo, non sta mai da sé sola, ma è sempre un rapporto». La vera questione semmai poteva essere quella di tenere al guinzaglio la filologia perché non tarpasse le ali all’intuizione, che è appunto vedere dentro le cose prima che venga conferma anche dai documenti. L’intuizione – con una cultura adeguata – è l’abito del conoscitore.

I due volumi di Archinto sono preziosi in particolare per gli apparati filologici e le annotazioni che chiariscono una quantità di situazioni storiche dove Longhi ebbe un ruolo decisivo: per esempio nel sollecitare l’impegno delle istituzioni per recuperare e tutelare le opere d’arte all’indomani dell’ultimo conflitto quando nella Lettera sull’arte pubblicata sul “Cosmopolita”, rivista diretta da Briganti, invita gli storici dell’arte a un “esame di coscienza” verso le loro responsabilità. Una esortazione all’impegno civile, che Longhi non separa dalla divulgazione popolare quando pensa a un libro con «il racconto dell’arte italiana a centomila copie».