All’inizio c’era il mercato, quello che William Hogarth aveva saputo immortalare nella sua caotica confusione, ma la rivoluzione industriale stava cambiando tutto. Anche se il primato di una
Exposition des Produits de l’Industrie française va alla Francia nel 1798, al Campo di Marte, la prima Esposizione universale non poteva che nascere nel Paese della rivoluzione industriale. Alexandrina Vittoria era diventata regina di Gran Bretagna appena diciottenne nel 1837 e proprio in quegli anni l’Inghilterra godeva di un particolare stato di benessere: la ferrovia stava cambiando il paesaggio e Isambard Kingdom Brunel ingegnere e imprenditore nell’industria del ferro aveva trovato il suo successo nella costruzione di ponti metallici per le strade ferrate, dove dominava il genio di Robert Stephenson, artefice della South Western Railway. Lord Palmerston aveva verificato presso numerosi governi europei la disponibilità a partecipare nel 1851 a una grande esposizione dei prodotti dell’industria e il 17 ottobre 1849 il
Lord Mayor di Londra aveva formato un comitato per la promozione dell’
Exhibition. I banchieri James e Georges Munday avevano aperto un credito alla Royal Society of Arts per i preparativi dell’esposizione e finalmente il 3 gennaio del 1850 era stato approvato ufficialmente il progetto di una esposizione universale: la commissione reale era presieduta dal principe Alberto. Le difficoltà come sempre accade in questi casi non erano mancate sia sul piano finanziario sia su quello politico e il progetto definitivo del Crystal Palace, il palazzo di cristallo da erigersi a Hyde Park su una superficie di 84.000 metri quadrati, era stato approvato alla Camera dei Comuni con 166 voti a favore e 47 contrari. I lavori di costruzione in ferro e vetro, in una struttura parallelepipeda attraversata a metà da un transetto con un’ardita volta a botte, iniziarono il 26 settembre di quello stesso anno e terminarono nel gennaio dell’anno seguente, in anticipo alla inaugurazione che avvenne il 1° maggio 1851. L’ideatore di questa grande "serra", ideale per potere garantire agli espositori il riparo dalle intemperie ma al tempo stesso la migliore illuminazione naturale, era stato Joseph Paxton che dalla sua esperienza di giardiniere aveva saputo estrarre una stupefacente professionalità di architetto: la struttura del palazzo di cristallo era interamente prefabbricata ed era organizzata su un modulo base quadrato di 24 piedi (7,3 metri circa) montato con elementi in ghisa e acciaio forgiato per un totale di 77 x 17. Metà della superficie espositiva era destinata alla Gran Bretagna e ai suoi possedimenti: il resto vide 1597 espositori dalla Germania, 1560 dalla Francia e Algeria, 647 dall’Austria, 599 dagli Stati Uniti e 512 dal Belgio. La partecipazione dell’Italia, ancora non unita, fu assicurata da numerosi espositori provenienti dal Granducato di Toscana, dal Regno di Sardegna, dallo Stato pontificio e dal Regno delle due Sicilie, oltre che dal Lombardo-Veneto sotto la bandiera asburgica. L’enorme successo della
Great Exhibition decretò il trionfo dell’industria sull’artigianato e quando l’11 ottobre si chiusero i battenti del Crystal Palace, molti dei prodotti esposti non vennero dispersi ma costituirono il primo nucleo di un Museum of Manufactures, che fu aperto nel maggio dell’anno successivo alla Marlborough House e presto sarà all’origine del Victoria and Albert Museum. Il numero dei visitatori superò, di poco, i sei milioni e il fasto degli oggetti esposti, dalle macchine a vapore ai tessuti damascati in seta fu celebrato non solo in Inghilterra. A Torino dalla Tipografia Subalpina venne pubblicato periodicamente "
La grande esposizione di Londra. Giornale illustrato" né mancarono gruppi di operai che organizzarono visite collettive. Le sorti del Crystal Palace, destinato originariamente a vivere per sei mesi furono assai strane perché già nei primi mesi del 1852 un consorzio di uomini d’affari propose lo smontaggio della struttura per riutilizzarla nella costruzione di un nuovo palazzo in ferro e vetro a Sydenham Hill. E così il glorioso Crystal Palace divenuto un luogo pubblico ospiterà numerose manifestazioni sportive, una delle prime esposizioni sui dinosauri, e il primo Jamboree mondiale dello scautismo. Come molte strutture di questo tipo più volte correrà i rischi di un incendio sinché il 30 novembre 1936 un rogo non porrà definitivamente fine ai suoi giorni. Lo stesso Winston Churchill disse in un suo discorso alla Camera dei Comuni che così «si è segnata la fine di un epoca».Ritorniamo però alla metà del XIX secolo quando l’impulso dato dalla
Great Exhibition del ’51 non era di certo sfumato: undici anni dopo, in diretta competizione con la risposta francese avvenuta nel 1855 i londinesi si approntarono a una nuova avventura. Il nuovo sito fu localizzato a South Kensington, nei giardini della Royal Horticultural Society dove fu eretto un nuovo gigantesco palazzo e l’inaugurazione avvenne il 1° maggio del 1862. Anche in questo caso non mancarono le polemiche ma il successo fu nuovamente confermato da più di 6 milioni di visitatori. Fu costruito un nuovo gigantesco edificio con facciate in mattoni e strutture in ferro e vetro e anche se nello spirito degli organizzatori questa struttura sarebbe stata destinata ad essere permanente, non lo fu. Gli espositori bilanciarono meglio le partecipazioni straniere rispetto a quelle nazionali: il Regno Unito e le colonie coprirono circa il 30% del totale e rispetto ai 7000 espositori inglesi si registrò una partecipazione di 5521 francesi e 2492 tedeschi. L’Italia, ormai unita, fu a Londra con 2104 espositori e non mancarono polemiche quando Giuseppe Verdi fu invitato a comporre l’Inno delle Nazioni per il giorno inaugurale. Aveva scritto una cantata e non una marcia, come gli era stato invece richiesto e Michele Andrea Agniello Costa, direttore musicale dell’Esposizione di Londra, si rifiutò di dirigere il pezzo. Ma non tutto fu velato di dissapori. Il senatore Giuseppe Devincenzi, Commissario generale del Regno d’Italia all’Esposizione internazionale del 1862, che era stato una settimana a Sheffield presso le officine di J. Brown per sperimentare la conversione in acciaio di ferri provenienti da miniere italiane, si era reso conto della necessità di promuovere la cultura industriale anche nel nostro Paese. Riuscì a ottenere praticamente a titolo gratuito, a Esposizione terminata, un gran numero di prodotti esposti, i quali l’anno successivo avrebbero costituito il primo nucleo del Regio Museo Industriale Italiano fondato a Torino sul modello del South Kensington Museum e del parigino Conservatoire des Art set Métiers, una istituzione destinata a diventare nel 1906 il primo Politecnico italiano.