Il regista. Davide Livermore: «Porto in scena Tosca e le sue sorelle»
Il regista Davide Livermore al Teatro Greco di Siracusa per "Elena" di Euripide (foto Franca Centaro)
Elena di Troia, Anna Bolena, Adriana Lecouvreur, Tosca. Tutte grandi donne che il regista, sceneggiatore, scenografo Davide Livermore incontra sul suo cammino quest’anno, fra teatro e opera lirica. Dopo il successo della prima della Scala dello scorso anno con l’Attila di Verdi dal taglio cinematografico, il regista 53enne acclamatissimo all’estero, farà il bis il prossimo 7 dicembre sempre al fianco di Riccardo Chailly, inaugurando la stagione con Tosca di Puccini. Protagonisti la star della lirica Anna Netrebko e Luca Salsi nel ruolo del barone Scarpia. Intercettiamo il torinese Livermore al Teatro Greco di Siracusa per il debutto di Elena di Euripide, tragedia che ha entusiasmato il pubblico per effetti speciali e spessore interpretativo. Lo incontriamo appena arrivato dall’Oman, dove era in scena Lakmé di Léo Delibes alla Royal Opera House di Muscat, e in partenza per l’Australia dove a luglio debutterà Anna Bolena di Donizetti alla Sidney Opera House, mentre ad agosto sarà al Rossini Opera Festival di Pesaro con Demetrio e Polibio e a Orange col Don Giovanni di Mozart al Teatro Antico, per poi arrivare all’Opera di Marsiglia a marzo 2020 con Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea.
Maestro Livermore, da Elena a Tosca, lei si occuperà di donne forti quest’anno.
«Tra le due passo attraverso Anna Bolena, tutte le donne di Don Giovanni, Elvira, Anna, Zerlina, e poi l’Elisabetta del Don Carlos a Nur-Sultan in Kazakistan. La bellezza dell’affrontare certe drammaturgie è trovarsi di fronte donne che non sono sempre forti. Con Gianluca Falaschi che curerà i costumi ci siamo domandati: “ma Tosca è una donna forte?” No, Tosca non lo è assolutamente. Lei è una donna d’arte, di spettacolo, che utilizza la forza nervosa, quella grinta di quando si va in scena, sostanzialmente per fare un’unica cosa: cercare di vivere una contemporaneità complessa. E infatti alla fine si sfalda».
Il suo “Attila” lo scorso 7 dicembre alla Scala, ha stupito per il taglio cinematografico coinvolgente che è piaciuto al grande pubblico, come pure la sua “Elena” ipertecnologica a Siracusa.
«Non deve esserci troppa realtà in scena. Quando ho inaugurato la Scala, leggevo alcune critiche sui blog, tipo che Attila non poteva avere una pistola. Mi ha emozionato uno spettatore che ha risposto: “Ricordo a tutti che l’opera lirica non è un documentario storico, è un’opera d’arte”. Il mio maestro Carlo Maier, ex direttore artistico del Teatro Regio di Torino e del San Carlo di Napoli, mi ha insegnato subito che la frontiera oggi è ridurre le distanze con le persone. È avere il coraggio di raccontare la storia che uno ha tra le mani, non la propria storia personale. La gente deve appassionarsi di Elena e Menelao, oppure di Tosca e di Scarpia e di Caravadossi, non di me».
Ammetterà che però la sua originalità e dinamismo nell’affrontare l’opera la porteranno a inaugurare di nuovo la stagione scaligera...
«Sono gratissimo di questo alla Scala. Certo, Tosca è un titolo più famoso di Attila, ma se uno oggi va in giro, va al bar, parla con le persone e chiede “sai chi è Tosca?”, queste non lo sanno. Per cui oggi dobbiamo semplicemente riprenderci il possesso delle storie e avere il coraggio di raccontarle fino in fondo. Perché quando un artista si mette a disposizione di qualcosa di più grande del proprio ego, quando utilizza il proprio narcisismo ed egocentrismo (e io ben conosco il mio) a disposizione di qualcosa di più interessante, allora fa centro. Verdi rimarrà sempre, Puccini e Euripide pure, io no. Forse se sarò ricordato dai miei nipoti sarò felice, perché significa che li ho amati».
Una critica all’egocentrismo visuale di oggi?
«Un uomo è un artista se sta lontano da se stesso. Se uno sta attaccato a se stesso può fare un reality show o vendere materassi. Questo è un tempo dell’esaltazione dell’ego personale e non dell’applicazione verso l’arte. Ma di artisti veri per fortuna ce ne sono tanti».
Lei ha detto che senza la tragedia greca non avrebbe mai diretto opere liriche.
«La tragedia greca è fondante anche del teatro d’opera. E tra gli archetipi fondanti della nostra civiltà sta la sacralità dell’uomo. Per me all’inizio c’è lo studio del testo e, prima ancora, uno studio ferreo e approfondito di tantissimi anni di quello che è la tragedia. Solo attraverso questo posso mettere in scena l’opera lirica. Nella tragedia trovo gli archetipi di tutto quello che verrà. La tragedia è teatro di parola, ma questa parola veniva declamata in maniera diversa e la musica ai tempi dei greci c’era, amplificava la retorica delle parole, l’armonia era al servizio della poesia».
Ed anche dell’etica. In “Elena” ricorre il tema della giustizia.
«Non sei re se non pratichi la giustizia. Non c’è felicità senza giustizia, si dice nell’opera. La felicità non può essere fatta a discapito di un altro essere umano. La vita si ritorcerà sempre contro. Questo lo vediamo anche nella nostra quotidianità, anche nelle relazioni umane le cose prima o poi tornano. Se un genitore non ha risolto alcune cose con i figli o i figli non le hanno risolte con i genitori, non se ne esce. I conti della vita bisogna farli sempre. Per questo la giustizia e la verità devono emergere. Ho in mente la bellissima citazione di Aldo Moro: “La verità è sempre illuminante”».
Ed oggi?
«Quello che stiamo facendo con la politica culturale è molto vicino a uno sfascio sfascista. Siamo passati da 30 anni di menzogne da parte di tutti i governi, è stato detto alla gente che la cultura era uno spreco, per poi scoprire che non era vero. Ma dopo 30 anni di spazzature televisive siamo passati, per la nostra educazione affettiva, dallo studiare Anna Karenina o ascoltare Bohème a Uomini e donne della De Filippi, un programma che ha prodotto generazioni sfasciate nell’affettività. Ora siamo alle armi, il giorno di Pasqua con il mitra in mano, non si celebra il 25 aprile che è una festa liberale. Sono stanco di questa diseducazione totale data al nostro Paese: siamo seduti su miniere d’oro che sono le nostre chiese, i nostri musei e l’opera lirica, che è la simultaneità di tutte le arti e per questo ha un valore mondiale».