Agorà

L'intervista. Calcio non piangere. Lippi ci fa coraggio

Dario Pelizzari giovedì 29 gennaio 2015
Un Mondiale, quello del 2006, conquistato nel pieno della tormenta Calciopoli, quando tutto e tutti avrebbero scommesso su altri scenari, certo meno luccicanti. Cinque scudetti, una Champions League e una manciata di altri titoli alla guida della Juventus, al termine di un percorso colmo di riconoscimenti. Poi, la Cina. La rivoluzione toscana applicata alla periferia del pallone mondiale. Anche qui, altro giro, altri trionfi: al timone del Guangzhou Evergrande tre titoli nazionali negli ultimi tre anni e una Champions League asiatica. Come si dice, di tutto, di più. Per Marcello Lippi, tecnico tricolore tra i più celebrati all’estero, 67 anni da compiere il 12 aprile, è da poco iniziata una nuova vita. Al tramonto dell’ennesimo successo professionale, il tecnico di Viareggio ha infatti deciso di fare un passo indietro per immaginarne due avanti. Oggi è ancora in Cina, domani chissà. La svolta è arrivata lo scorso novembre, quando ha scelto di mettere da parte il mestiere di allenatore del Guangzhou per dedicarsi a quello di direttore tecnico: cosa è cambiato nel suo quotidiano? «Ho iniziato il nuovo incarico soltanto da pochi giorni, è presto per capire se mi manca in qualche modo quanto facevo prima. In ogni caso, volevo cambiare. È una scelta che nasce da ragioni personali: facevo troppa fatica a stare lontano da casa per cinque mesi l’anno. E se avessi continuato a fare l’allenatore, le cose non sarebbero potute cambiare». Fabio Cannavaro ha preso il suo posto in panchina. Pensa che questa esperienza in Cina sia “ allenante” per un tecnico che ha bisogno di fare esperienza? «È allenante tutto per chi ha bisogno di fare esperienza, anche guidare gli Allievi. Figuriamoci poi una squadra in un campionato come quello cinese e nella Champions asiatica». Lippi, lei è tra i tecnici italiani più vincenti di sempre del calcio italiano. Cosa la spinge a rimanere ancora a due passi dal campo? «Lasciare il calcio non è una cosa semplice, anche se ne hai fatto parte per tanti anni. Un po’ ci sono le resistenze e l’affetto delle persone che lavorano con te, un po’ c’è l’abitudine: finché si può, si va avanti. Magari cambiando ruolo come ho fatto io, ma si va avanti». Cosa l’ha più colpita della Cina? Crede che sia un Paese che possa insegnarci qualcosa? «La Cina ci può insegnare tantissimo. A cominciare per esempio dalla disponibilità a fare lavori umili. Da noi pare che nessuno li voglia più fare, mentre in Cina è un problema che non esiste, ci sono moltissime persone che li svolgono. Mi creda, è un Paese straordinario». Lei dice da tempo che molti giocatori cinesi potrebbero trovare spazio nel massimo campionato di casa nostra. È migliorato il livello della Super League cinese, oppure si è drasticamente abbassato quello della Serie A? «Ne sono certo, è migliorato il livello del campionato cinese, grazie soprattutto ai tanti allenatori di tutto il mondo che hanno deciso di lavorare in Cina. E poi ci sono numerosi giocatori stranieri di tutto rispetto che hanno rappresentato un modello di riferimento per i calciatori nazionali. Certamente, manca ancora la cultura del lavoro, la scaltrezza, e il mestiere per costruire un settore giovanile che possa dare nuova linfa alle squadre di vertice. Tuttavia, confermo: ci sono molti giocatori cinesi che potrebbero trovare spazio in diverse squadre europee». Eppure, Gilardino e Diamanti sono tornati in Italia dopo pochissimi mesi in Cina. Scelta tecnica o di prospettiva? «La loro partenza è frutto della strategia della nuova proprietà del Guangzhou. È entrato nella società al 50% Alibaba (ndr, gigante cinese dell’e-commerce) e la proprietà ha deciso di cambiare i giocatori stranieri. La ragione sta tutta qui». Quali sono gli ostacoli più grandi da superare per un calciatore italiano che decide di giocare da quelle parti? «Se un calciatore europeo è convinto di andare là e di avere vita facile sbaglia. Per ragioni tecniche, ma non solo. A Guangzhou si gioca con una temperatura vicina ai 40 gradi e con il 90 per cento di umidità. Il clima non aiuta, ecco». Carlo Ancelotti ha sbancato Madrid, riportando il Real sul tetto d’Europa dopo più di due lustri. È la dimostrazione che il calcio italiano ha ancora molto da insegnare? «In questo momento, Ancelotti è il migliore allenatore del mondo. Ha fatto benissimo come calciatore e sta facendo benissimo come tecnico. Ha la saggezza, il carattere e la serenità necessaria per fare rendere al massimo i grandi campioni. Il calcio italiano? Ha ancora tantissimo da insegnare, lo dicono anche i numeri. Il Brasile, che è l’essenza del gioco del pallone, ha vinto cinque Mondiali. L’Italia ne ha vinti quattro e uno l’ha perso in finale proprio contro il Brasile ai calci di rigore. Gli allenatori di casa nostra sono i più bravi in assoluto, non ci sono dubbi». Esclude la possibilità di tornare a insegnare calcio in Italia? Pare che alcune società sarebbero felicissime di averla nel loro staff per un ruolo fuori o dentro il campo... «Non farò mai più l’allenatore di club. Quando tornerò a casa dalla Cina, mi potrebbe interessare fare l’unica cosa che ancora non ho fatto, ovvero guidare una Nazionale all’Europeo. Se mi dovesse capitare l’occasione, la valuterei con attenzione. Un incarico da dirigente in qualche club della Serie A? Se ne potrebbe parlare...». Via Conte, dentro Allegri e la Juventus continua a fare benissimo. Ne era convinto anche lei? «Via Trapattoni, dentro Lippi. Via Lippi, dentro Capello. Via Conte, dentro Allegri. È la Juventus che fa la differenza. Certo, bisogna avere qualità per guidarla, ma è la società che garantisce risultati». Crisi Inter e Milan: come se la spiega? «Una parola soltanto: rinnovamento. Il rinnovamento passa sempre attraverso qualche delusione». A proposito di Juve. Nell’estate del 2001 la società bianconera decise di vendere Zidane al Real Madrid per 150 miliardi di lire e lei riuscì comunque a costruire una squadra capace di vincere lo scudetto. Crede che un discorso simile possa essere fatto per Paul Pogba? Vendere i campioni in cambio di una montagna di denaro può rappresentare un valore aggiunto? «Se la Juventus dovesse davvero ricevere un’offerta pari a quella che arrivò per Zidane saprebbe che con la cessione di Pogba potrebbe acquistare tre o quattro giocatori di altissimo livello per fare benissimo ancora per molto tempo. Ma potrebbe anche decidere di tenere il suo grande campione. È una scelta che spetta ovviamente alla società».