Lo speaker. Linus: «La mia radio, più umana e più vera»
Linus
Alla porta della sede milanese di Radio Deejay, in via Massena, all’angolo di quella storica della Rai, l’occhio dell’ex ragazzo degli anni ’80 rimane ipnotizzato dalla scritta “One Nation, One Station”. E a quel fortunato jingle-spot, nel momento in cui incontriamo Linus, il deus ex machina dell’emittente viene da aggiungere “one voice”. Ad essere precisi, la prima voce storica di Radio Deejay è stata quella dell’eterno Gerry Scotti. Ma da quarant’anni a questa parte il faro acceso dell’On Air, nonché il direttore editoriale, da 30 anni di Radio Deejay e ora di tutto il gruppo radiofonico Gedi (Radio m2o e Radio Capital) è lui. Pasquale Di Molfetta, in arte Linus, 67 anni il prossimo 30 ottobre, portati strabenissimo, con fisicità e flemma olimpica, grazie anche alla lunga militanza podistica.
Cominciamo da una curiosità, ma come nasce il nome Linus?
Il mio nome di battesimo, che era quello del nonno Pasquale, non era proprio il massimo per un bambino e mia madre mossa a pietà in casa mi chiamava Lino / slash / Linuccio, che è poi come continuano a chiamarmi mio fratello Alberto e mia sorella. Poi da studente dell’Itis, un mio professore, un sessantottino che arrivava a scuola a bordo di una Fiat 500 bianca targata Ch (Chieti) iniziò a chiamarmi Linus ed è come se mi avesse ribattezzato. Da allora, per tutti, sono diventato Linus
Invece il “battesimo” con questo mestiere della radio come è avvenuto?
Nessuno di noi all’epoca pensava che fosse un mestiere ma un semplice divertissement. Il dj era l’equivalente di quello che ora rappresenta lo youtuber, il rapporto con la radio per la mia generazione è quello che oggi hanno i 18enni con i social. Io scopro la radio in quinta superiore e questo mi costò due bocciature e la decisione drastica, quanto necessaria, di mia madre di mandarmi a lavorare.
Impiegato in una radio?
Macché. Operaio in una piccola azienda dove dopo poco scopro il mio futuro talento per la gestione e l’organizzazione. Non avevo ancora compiuto vent’anni che ero già un piccolo capo reparto con quattro-cinque persone sotto di me da gestire.
Ha rischiato di diventare un piccolo imprenditore, altro che direttore di emittenti radiofoniche...
Due fattori hanno giocato a favore della radio: la fabbrica si trasferì nella bergamasca, ma soprattutto la mia prima fidanzatina mi lasciò, convinta che per il futuro non davo nessuna garanzia, soprattutto finanziaria. A quel punto non ho avuto più dubbi: vado a lavorare in radio a tempo pieno.
Il primo ingaggio alla console delle mitiche radio libere chi glielo offrì?
Enrico Rovelli, il manager di Vasco Rossi e Patty Pravo, ma soprattutto grande creatore di locali che hanno fatto la storia della movida milanese e non solo: l’Alcatraz, il Propaganda, Rolling Stone… Quando nel ‘77 Rovelli apre Radio Music 100 io vado in onda con il mio primo programma. Un tuffo senza salvagente, soldi pochi, stipendio a singhiozzo, eppure non solo ho rischiato sulla mia pelle ma alla fine ho “traviato” anche mio fratello Alberto che ha cominciato a fare questo mestiere a 15 anni. E in pratica l'abbiamo fatto sempre assieme.
Linus e Albertino, speaker lanciatissimi e in coppia anche nelle serate da dj.
Al sabato sera io e Alberto facevamo i dj al Rolling Stone e lì dentro personalmente entravo sentendomi come Tony Manero ne La febbre del sabato sera. Finalmente, il ragazzo di periferia, arrivavamo da Paderno Dugnano, si appropriava della città e diventava milanese.
Ma qual era la musica suonata dal giovane dj Linus?
Sono cresciuto con i cantautori, punto di riferimento Francesco De Gregori, ma le radio libere sono cresciute e hanno visto il boom grazie alla disco music. Rovelli invece era un rockettaro incallito e litigavamo sulle scalette, perché io ritenevo che il rock fosse roba per adulti e non adatta al nostro pubblico giovane. Insomma dovevo barcamenarmi in bilico su tre realtà sovrapposte e quella comunque è stata una grande scuola di equilibrismo.
Poi il grande salto: quarant’anni fa il passaggio a Radio Deejay.
Già, era l’ottobre del 1984. Claudio Cecchetto nell’82 compra Radio Music, gli cambia il nome in Radio Deejay e chiama sia me che Alberto. Troviamo già una radio di rottura con una sua personalità solida, strutturata che si differenziava dalle altre emittenti: trasmetteva solo musica inglese, vietati i brani italiani. Entriamo qui, al quinto piano, allora l’unico, e lì – indica in fondo alla stanza - dove c’è il portaabiti, era piazzato lo “Studio Rosso” dove andava in onda soltanto Gerry Scotti, dalle 12 alle 14. Poi io e Alberto abbiamo cominciato a riempire il palinsesto con le trasmissioni del mattino e del pomeriggio.
Quando ripensa a quei primi tempi cosa rivede?
Un gruppo di quasi tutti under 30 appassionati ma non pienamente consapevoli di stare facendo qualcosa di importante, da pionieri radiofonici. Fino al ’90 per sei anni io conducevo Dj Television che per l’Italia era un fenomeno enorme, il primo programma con i videoclip delle canzoni delle star della musica mondiale, eppure non mi rendevo conto della grande novità che stavamo portando, solo con il senno di poi ho capito quanto fossimo popolari.
Dalla “cantera” di Radio Deejay sono usciti i volti più popolari dello showbiz e della televisione attuale, come si vede in quella fotoposter lì appesa alla parete (Linus sullo sfondo con Scotti, Jovanotti, Fiorello e Albertino). Avrebbe mai immaginato che il successo di quegli ex ragazzi sarebbe durato così a lungo?
Che sarebbero durati così a lungo chi poteva dirlo, ma che fossero dei fenomeni unici quello era lampante. Gerry l’ho conosciuto nel 1976 e allora, come oggi, ho sempre pensato che fosse di un altro pianeta. Lorenzo Jovanotti si capiva che aveva del carburante che madre natura a noi non aveva concesso e lo stesso vale per Rosario Fiorello che sembrava sceso da un albero. Fiore veniva dalla Sicilia e da dieci anni di vita da animatore nei villaggi vacanze, non sapeva compilare una distinta e mi ricordo che un giorno chiese ad Amadeus se gli prestava il suo libretto degli assegni – sorride divertito -. Così, come se fosse normale che un libretto bancario valesse per tutti.
Quasi tutti loro hanno fatto o condotto Sanremo, tranne Linus. Come mai?
A dire la verità me l’hanno chiesto anche l’anno scorso, ma puntualmente ci si ferma al “Lo faresti?”. “Sì, sarebbe bello”. Poi le dinamiche interne della Rai fanno sì che non si arrivi mai in fondo… Pazienza! Se mi piacerebbe? Penso di avere l’esperienza giusta per saper condurre il Festival e ancora meglio per fare la direzione artistica. Ma per stare sul palco dell’Ariston serve una popolarità più trasversale della mia. Non sono un personaggio Rai e non sono mai stato un buon venditore di me stesso.
Forse, morettianamente parlando, paga l’essere rimasto un “autarchico”?
Può darsi, ho sempre fatto tutto da solo, non ho mai avuto un manager in vita mia. Quando lavoro con qualcuno mi piace che ci sia rispetto reciproco e trasparenza e spesso i manager per giustificare la loro presenza complicano irrimediabilmente i rapporti.
Nicola Savino, il suo socio storico a Deejay chiama Italia oltre alla radiovisione fa molta tv, ma lì non lavorate mai in coppia.
Nicola dal punto di vista televisivo ha scelto un percorso personale. Io a un certo punto mi sono anche un po’ disinnamorato del video. La radio in tv? È un integratore, oramai tutte lo fanno, ma non è fondamentale, anche perché la forza della radio sta nell’ascolto. La tv è stanziale, mentre invece puoi ascoltare la radio e nel frattempo muoverti, viaggiare, fare mille cose. Il 90% dei nostri radioascoltatori sappiamo che preferisce solo l’ascolto, poi la nostra radiovisione è anche gradevole perché non è quella classica e io e Nicola siamo più easy e questo nel tempo ha creato un rapporto più famigliare anche con il pubblico.
Dopo migliaia di puntate di Deejay chiama Italia quali sono i personaggi a cui è più affezionato?
Ci sono ospiti che vedo sempre con grande piacere e altri con i quali devi essere più cauto. Una volta noi ospitavamo solo i cantanti in promozione, ora la maggior parte di quelli nuovi che sono in classifica passano da altre parti e quando vengono a Radio Deejay si crea spesso un reciproco senso di disagio, quanto meno iniziale: loro non sanno quasi chi sono io, e viceversa io non so praticamente niente di chi mi sta davanti. Purtroppo i giovani cantanti di adesso sono tutti molto autoriferiti e anche un po’ spaventati. Spesso hanno raggiunto troppo in fretta un successo enorme che è filtrato dall’illusione della realtà digitale, e questa gli fa vivere una vita distorta.
C’è invece in corso un’idea molto chiara e forte nel rilancio di Radio Capital.
Se non avessi già da pensare a Radio Deejay per l’età che ho e per quello che sono diventato forse farei solo Radio Capital. Il nuovo progetto è molto stimolante e credo anche più lineare del precedente. Un progetto dove parole e musica trovano un equilibrio unico grazie alla collaborazione di voci radiofoniche native, capaci di arrivare al cuore del radioascoltatore. Cosa non certo facile. L’informazione è rimasta una componente importante, ma è confezionata in maniera molto più agile, mentre la musica ha mantenuto la sua centralità, ma con una proposta che favorisce la qualità prima dell’età anagrafica.
La radio quanto ha arricchito il suo bagaglio culturale?
Con le scuole serali poi ho preso il pezzo di carta, diploma di perito elettrotecnico che comunque non ha mai saputo attaccare due fili. Ma ho letto tanto e possiedo una curiosità intellettuale che oggi mi consente di essere un uomo che al microfono o fuori onda ha sempre qualcosa da dire. Credo che la mia essenza sia nel piacere della narrazione. La conferma l’ho avuta nello spettacolo teatrale Radio Linetti che riprenderò all’inizio del prossimo anno con una decina di date tra gennaio e febbraio.
Radio Deejay in tutti questi anni ha avuto una funzione sociale al di là delle maratone, anche “solidali”, come Deejay Ten?
Da tempo abbiamo imboccato due strade separate: attenzione e vicinanza a tutto il mondo del no-profit, ma essendo la richiesta enorme ognuno di noi ha sposato una causa. Io ad esempio sono vicino a Dynamo Camp, una realtà pazzesca a cominciare dal luogo in cui operano (San Marcello Piteglio) con un’umanità straordinaria e in 15 anni è diventata qualcosa di fantastico di cui vado orgoglioso per aver contribuito alla sua crescita.
Si avverte una certa emozione dalle sue parole. Ma Linus ha mai pianto in diretta?
Non sono ai livelli di Gerry che ormai piange di continuo in tv - sorride -… Ma capita che se in diretta leggo qualcosa di toccante poi mi si spezzi la voce. Però sono forte e allenato e vado avanti. Piuttosto mi ricordo certi momenti di “stupidera” da 15enni con Elio e le Storie Tese: quando facevamo insieme Cordialmente 4 stagioni, lì parecchie volte è capitato che fosse quasi impossibile continuare, si rideva fino alle lacrime.
La sua corsa alla radio continua. Ma in questa quotidianità dell’andare in onda ha trovato un senso, anche spirituale?
La radio è un bellissimo strumento per superare le difficoltà e non puoi farla con la testa distratta da altre cose. Nelle due ore di diretta sono attento esclusivamente su quello che dico e non potrebbe essere altrimenti. Per me ogni trasmissione è un viaggio in cui non posso mai staccarmi dal volante, anche quando va il disco rimango lì, concentrato. È un percorso lineare, fluido, chiaro. Fare la radio ha lo scopo di svuotarti, per poi riempirti di qualcosa che ti fa stare bene e magari aiuta a star meglio anche chi ti ascolta. È una meditazione, che serve a sgombrare la mente dalle cose e i problemi del quotidiano e a raggiungere un livello superiore di consapevolezza. Sì, forse la radio è il mio momento zen permanente.