Passa del tempo. Passa il tempo. Non faccio nulla, come vedi: scrivo questa lettera, poi smetto di scriverla e poi la riprendo. Passeggio, molto, vado a camminare su Dio nel sottobosco, in questa luce strana del sottobosco, in questa luce che sgorga dall’ombra, che sale dalla terra. Il freddo dell’inverno ravviva i pensieri, accresce la precisione della vista e il respiro delle fantasticherie. Rientro tardi ed è per aprire dei libri, per dare inizio alle letture che non finirò mai. Distante da tutto. In disparte da tutto. In ascolto di tutto. Consumando libri come esili muraglie attraverso cui potremmo percepire l’eco delle guerre più antiche, più segrete. L’anima. Ha il fulgore e la pesantezza dell’inchiostro. Ha questa densità nera, più luminosa della luce del giorno. Leggendo. Perseverando grazie ai libri, grazie a questo elementare insieme di carta, di filo, di inchiostro e di piombo, il sogno di una povertà essenziale, di una povertà più grande dell’assenza di ogni bene. Cercando non so cosa. Cercando. Avendo bisogno, per vivere, soltanto di una manciata di parole e di una equivalente manciata di silenzio. Non di più. Nulla di più. Non riuscendo mai a soddisfare questo bisogno. Scoprendo, ogni volta, la debolezza irriducibile di tutti i libri: ciò che è più prossimo al silenzio, e che proprio per questo rischia di distogliere di più, di distrarre.