Intervista. Zagajewski: «Il poeta sulla linea d’ombra»
Adam Zagajewski, poeta, scrittore e saggista polacco
Adam Zagajewski è un autore da leggere con particolare attenzione. Nato a Leopoli nel 1945, di nazionalità polacca, da molti anni è candidato al Nobel per la letteratura. Ricorre spesso nelle sue poesie – dotate di una linearità e di un’altezza davvero disarmanti – la parola obcy, “straniero”, dal verbo obcowac, “entrare in contatto con qualcosa”. La condizione stessa dell’essere stranieri, in una dilatazione del campo semantico, indica l’alterità a cui è impossibile rinunciare. Molto frequente appare anche l’aggettivo cudzy, “appartenente ad altri”. La lirica “Nella bellezza altrui”, acclusa alla selezione adelphiana Dalla vita degli oggetti (2012), esprime proprio tale legame di senso: «Solo nella bellezza altrui/ vi è consolazione, nella musica/ altrui e in versi stranieri./ Solo negli altri vi è salvezza». Raffaelli editore darà alle stampe un volume di inediti, dal titolo Il 'fuoco eracliteo' nel giardino d’inverno con l’Università di Urbino Carlo Bo, che commemora così il conferimento del Sigillo d’Ateneo avvenuto in giugno ad opera del Rettore Vilberto Stocchi.
Che significato hanno nella sua opera l’estasi e l’ironia?
«Sono forse i due poli della fantasia – o i due estremi della poesia. La dimensione estatica è la più importante. Crea un campo di tensione nella linea espressiva, stabilisce la cornice che contiene tutti i diversi ingredienti del dettame poetico. Ma ha bisogno anche della sua controparte, l’ironia. È difficile dire se quest’ultima nasca solo in relazione al modo in cui funziona la mente moderna, o celi in sé qualcosa di più universale. La coesistenza dei due elementi, tuttavia, può essere rilevata in molte arti, persino nella musica. Gustav Mahler è il perfetto esempio di artista che giustappone questi due poli. I suoi movimenti lenti sono vicini all’estasi, laddove i suoi scherzi, invece, riproducono l’ironia. Per me è anche una questione psicologica: temo di essere una persona ironica che, da tempo, sperimenta attimi estatici ».
I suoi testi in prosa mescolano biografia, critica letteraria, memoria e poesia. Com’è nato questo modo particolare di scrivere?
«Quando ero molto più giovane ho provato a scrivere romanzi, ma non sono rimasto mai soddisfatto. Eppure la prosa è diventata una parte indispensabile della mia scrittura, l’impegno 'epico' sulle cose, la durata e non solo il 'momento'. Sin dagli esordi ho scritto recensioni e saggi. Dopo qualche tempo ho capito di aver bisogno, dal punto di vista autobiografico e da qualcosa che lo trascende, di chiarire importanti questioni intellettuali. Ho iniziato così con il volume Solidarnosc i samotnosc (La solidarietà e la solitudine), pubblicato a metà degli anni Ottanta. Questo libro ha significato per me la via d’uscita da un dilemma: l’esistere come scrittore e poeta tra l’urgenza politica di 'solidarietà', esemplificata nel grande movimento sociale in Polonia, che è stata, per così dire, la mia casa politica, e la tonalità intima della 'solitudine' – che coincideva con l’aria che respiravo. Gli introversi hanno sem- pre problemi nello sposare credi politici più vasti. Ho sviluppato questo approccio, questo mix, nell’opera che è conosciuta in Italia come Tradimento, e poi in W cudzym pieknie (Nella bellezza di qualcun altro). Capisco e ammiro poeti che si limitano puritanamente a scrivere poesie, ma non sono io stesso un puritano: mi piace il dialogo tra poesia e prosa, tra istanti di lucidità e narrazione spezzata».
Di cosa tratta Lekka przesada (La leggera esagerazione), titolo del suo ultimo saggio?
«Lekka przesada è un altro passo in tale direzione. Si tratta di un testo capriccioso, ma composto di temi differenti, in modo che il 'capriccio' non abbia l’ultima parola. Il titolo deriva dalla maniera in cui mio padre definì, in una conversazione, l’immaginazione poetica. Un aspetto sostanziale di questo volume è la strana, triste e divertente storia della vecchia generazione della mia famiglia. Sono stati tutti espulsi dalla città che amavano, Leopoli, ora in Ucraina. Naturalmente, non è un argomento nuovo per me, ci torno con una certa frequenza, anche in alcune poesie; ma qui ho raggiunto un inedito punto di vista, credo. È una sorta di omaggio agli anziani che conoscevo, un omaggio a coloro che sono stati i testimoni del più grande disastro che l’Europa abbia provato, la Seconda guerra mondiale e la Shoah. La domanda è: come si può vivere dopo la tragedia, come si fa a vivere nella quotidianità: nuovamente. Ma il libro ha altri soggetti, alcune note delle mie letture, meditazioni sulla musica e la poesia».
La sua ultima silloge, invece, si chiama Asymetria. Si può dire che l’asimmetria rappresenti quasi un principio esistenziale e universale?
«Non so se sia un principio universale. Non ho l’ambizione di creare simboli enormi. Nella lirica in cui compare il termine, mi colpisce lo squilibrio tra ciò che sappiamo delle persone che amiamo e il lato nascosto della loro vita. Quanto poco sappiamo. Come si cerchi di estrapolare le nostre modeste conoscenze per costruire ponti sopra la nostra ignoranza. Forse questa 'asimmetria' può essere intesa anche come la relazione tra ciò che è razionale e ciò che è irrazionale. La tensione tra i due mi ha sempre interessato, per non dire affascinato».
In Festa dei maturandi ricorre alla «nitida luce del vero», con la quale riesce ora a scorgere sua madre. È una lucidità diversa attraverso cui vedere l’altro, coglierlo entro una prospettiva più ampia?
«È un inno alla verità, un desiderio di verità impossibile. Parla dell’amore per mia madre, un amore che non è stato semplice. Ho paura di non essere uno di quegli innumerevoli artisti o scrittori che promettono un culto incondizionato alle loro madri, culto per il quale sono stati autorizzati senza domande o esitazioni. Avevo bisogno di un lungo periodo di tempo, dopo la morte di mia madre, per capire un po’ meglio come era stato il nostro rapporto, come avevo agito in qualità di figlio. Una volta, durante una lettura, nella città della mia prima giovinezza, qualcuno mi ha chiesto: perché scrivi sempre poesie su tuo padre e mai su tua madre. Ho dedicato un intero ciclo di poesie a mia madre: non come una reazione a questo 'blocco' interiore, piuttosto come un desiderio che preesisteva da molto tempo».