L'intervista. Ligabue: «Il mio Dio si sente solo come noi»
Luciano Ligabue
Dal gradino più alto del podio quindici giorni fa all’uscita, il nuovo album è appena sceso al terzo. Ma Dedicato a noi col suo mega tour nei palasport è già sulla rampa di lancio dell’Arena di Verona dove da domani darà pieno compimento al suo stesso titolo. Dopo aver fatto «urlare contro il cielo» di Milano e Roma centomila fans che a luglio hanno assistito ai due concerti a San Siro e all’Olimpico, Ligabue torna sulle amate scene live con il nuovo tour che lo vedrà in osmotico contatto fino al 1° dicembre (a Messina) con il suo pubblico, quel “noi” evocato dal nuovo ispirato album uscito lo scorso 22 settembre. Oltre ai suoi trent’anni abbondanti di successi, suonerà dal vivo tutti i nuovi undici inediti accompagnato dal suo fedele “Gruppo” percorrendo in lungo e in largo lo Stivale dalle due date scaligere alle successive torinesi e giù giù dal centro-nord fino a (dopo Roma il 18 e 19 novembre) Eboli, Bari, Reggio Calabria e l’altro capo dello Stretto. «Il concerto per me è un po’ il centro di tutto - ci spiega -. Non c’è niente di comparabile a questa esperienza perché non è tanto quello che faccio io, ma è quello a cui assisto. Ed è una delle cose che nel tempo mi hanno costretto, tra l’altro, a usare il gobbo sul palco perché mi concentro sulle facce delle persone e rischio di perdere il filo dei testi. Vengo rapito dal tipo di emozione vissuta da chi ho davanti, di partecipazione e, a volte, anche di trasfigurazione. Il modo di interpretare ognuno a modo proprio le canzoni è impagabile. Per questo dall’87, quando ho fatto il mio primo concerto, non sono mai riuscito a stare più di tanto senza andare in tour.
Cosa rappresenta nel profondo l’incontro con il pubblico?
Per me il concerto è il massimo dell’esercizio del privilegio. Da tempo posso contare su musicisti bravissimi, tecnici straordinari e, appunto, un pubblico che viene a festeggiarmi. Sono l’ospite d’onore di una festa in cui il mio unico compito è offrire una buona performance. Ma quello della prestazione è un tipo di ansia che non mi pesa più di tanto, anche se penso che tutto è ormai immortalato attimo per attimo dai telefonini e dalle telecamere. Ma tutto ciò è davvero un privilegio che mi godo sempre più fino in fondo.
Suo figlio Lenny ha suonato in ogni brano del nuovo album, ma sul palco non ci sarà. Perché?
In tour non suonerà perché c’è una macchina musicale già ben oliata, quella che ha appena suonato anche a San Siro e all’Olimpico. Però confido che arriverà il giorno in cui sul palco sarà anche lui al mio fianco. Ha un talento naturale per la ritmica, conosce già molto bene la dinamica della batteria che è uno strumento difficilissimo. Del resto Lenny è stato reclutato dal produttore, notorio pignolo, perché riteneva che Lenny fosse il batterista giusto per questo album.
Cos’ha provato a lavorare in studio di registrazione con suo figlio?
Da un lato ho vissuto questa esperienza con mio figlio professionalmente, trovando un tipo di comunicazione “altra” perché con la musica si comunica senza le parole. Dall’altro lato, avendo un mio personale studio di registrazione, ci siamo preso tutto il tempo che ci serviva discutendo molto con i collaboratori su ogni canzone e credo che Lenny non abbia mai avuto così tante informazioni su di me come in questa occasione. E’ stata una grande esperienza, un dialogo speciale. Un surplus di appartenenza.
Tema di fondo del disco, del resto...
Sì, il bisogno di appartenenza è richiamato proprio anche dal titolo dell’album, Dedicato a noi. Non è che io abbia ben chiaro il contorno di questo “noi”, ma sento il bisogno di chiamarci all’appello. Riconoscerci in una serie di valori e di convinzioni, ma anche di dubbi. Tenendo sempre presente che ognuno è unico, è però importante tornare insieme a mettere al centro alcune priorità in questa fase di emergenza sociale e umanitaria universale.
Una drammatica istantanea di questi nostri giorni che l’ha indotta a scrivere il brano Chissà se Dio si sente solo?
Il pezzo nasceva come un elenco di paure. Stiamo vivendo un inizio di decennio terribile fra la pandemia, la guerra in Ucraina, gli effetti disastrosi del surriscaldamento globale, le migrazione, il sempre maggiore disagio sociale, i femminicidi. Tutto questo produce un aumento delle paure, che sono spesso l’una l’opposto dell‘altra. Ovvero la paura di essere come gli altri ma anche di non essere come gli altri. La paura che non esista Dio e la paura che ci sia.
E questo a cascata cosa genera secondo lei?
Il primo risultato è intanto che la paura ci rende ancora più soli. Così, pensando a una umanizzazione di Dio, mi è venuto di colpo il dubbio: chissà se Dio si sente solo? Il focus della canzone è che Dio si senta un po’ abbandonato da noi. Se io sto all’iconografia di un Dio che ci sta guardando, non sta certo assistendo a un grande spettacolo. Nella mia vita e anche nelle canzoni ho provato spesso a umanizzare la figura di Dio, per provare ad avvicinarmelo un po’. E’ una mia esigenza spirituale.
Da credente?
Non posso non sentirmi credente e sono anche stato cattolico praticante. Di sicuro mi porto dietro un profondo bisogno spirituale e non ho mai pensato che la vita sia tutta soltanto qui. Ho avuto semmai un problema a identificarmi a volte con la nostra religione che, secondo la mia opinione, mette troppo al centro il dolore nella raffigurazione di se stessa. Da bambino soffrivo molto queste rappresentazioni. Percepivo invece il bisogno che si enfatizzasse di più la gioia della vita. E mi turbava che il simbolo del cristianesimo sia un ragazzo di 33 anni crocefisso. Ma resto cattolico e sono andato di corsa lo scorso 23 giugno all’invito del Papa agli artisti alla Cappella Sistina.
Che esperienza è stata?
Grande emozione quando ho dato la mano al Papa, perché ho la sensazione che Francesco incarni in modo particolare anche certi valori sociali in cui mi riconosco. Ma oltre a questo ho un intenso ricordo del suo bellissimo discorso, che conservo, e dell’ultima immagine di Michela Murgia, che era molto cattolica. Dopo aver dato la mano al Papa, incrociandomi prima che venisse il mio turno, mi ha guardato con gli occhi pieni di commozione mettendosi una mano sul cuore come per comunicarmi l’importanza di quel momento per lei che sapeva che la sua vita stava finendo (è morta lo scorso 10 agosto, ndr).
Certi valori per Ligabue da dove provengono?
Dalle mie radici e dall’aver imparato a ringraziare. Io sono grato per molte cose della mia vita e anche di essere riuscito negli ultimi anni a raccontare e a confessare questa mia fortuna. Tra cui, appunto, essere nato negli anni 60 e cresciuto da genitori che anche se non avevano finito le elementari avevano valori culturali e, a loro modo, spirituali da trasmettere. Nelle mie varie controversie spirituali, che non finiscono mai, c’è anche il fatto che mio padre, ateo convinto, io l’ho ritratto nella canzone Tu che conosci il cielo e addirittura lo faccio latore di un mio messaggio verso l’alto. Il che svela anche il sentimento che ho verso mio padre.
E verso un suo “padre” artistico come Elvis? Andrà a vedere Priscilla presentato a Venezia?
Il film di Sofia Coppola lo andrò a vedere perché mi interessa il punto di vista femminile di chi ha vissuto all’ombra di una delle più grandi icone del ventesimo secolo. Ma c’è molto da riflettere. Elvis Presley è stato il triste esempio di come il troppo lo abbia precipitato in una condizione di estrema solitudine. Un immenso vuoto da dover continuare a riempire, fino a morirne. Un disfacimento per ipertrofia. Il suo caso deve essere un monito. Oggi che il successo è un mito anche social e mediatico bisogna pensare a quale sia il suo reale senso. Sono tanti quelli che ne cadono vittime. Non è quindi per niente vero che la felicità possa stare nel raggiungimento del successo. Anche quello in una comune professione. A scapito dei veri valori.