Docufilm. Ligabue, da 30 anni su e giù dal palco
Il rocker Luciano Ligabue nel docufilm “30 anni in un giorno”
«Non è tempo per noi e forse non lo sarà mai» cantava Ligabue, ma il suo tempo è decisamente arrivato e da parecchio, con ricca dote: successo, hit da classifica, stadi gonfi di pubblico e adrenalina, film, libri. E Campivolo. Ne ha fatti quattro sino ad ora e l’ultimo, dell’anno scorso, adesso è finito in un film. Era il il 4 giugno 2022, ma doveva essere il 12 settembre 2020, lo sgambetto della pandemia lo ha spostato di due anni. Il titolo, 30 anni in un giorno, è rimasto uguale, perché il motivo, lo stimolo, il la erano proprio i tre decenni, fitti fitti, dal primo disco. Anche se, volendo, nel 2022 c’erano da festeggiare i 35 dal primo concerto (domenica 8 febbraio 1987, in un circolo della sua Correggio). Il docufilm - nelle sale il 20, 21 e 22 marzo - è stato presentato in anteprima a Roma al Cinema Barberini, con Ligabue in sala a vederlo per la prima volta fatto e finito. «Questo Campovolo - ha commentato alla fine era il più sovraccaricato di emozioni e di attese, formate in quegli anni senza poter suonare dal vivo. In questo film vedo tanto di quello che c’è stato prima, la frustrazione, l’impazienza, l’ansia da prestazione, anche se magari non sembra, sono bravo a nasconderlo». Quella data si portava tanto in corpo, era uno dei primi concerti dopo la pandemia, ma c’era anche l’Ucraina invasa, rubata, stuprata. E il concerto parte infatti con la bandiera della pace issata da “Mario”, lui , il barista, impersonato da Claudio Maioli, manager e alter ego da sempre di Ligabue.
Nel film c’è il prima e il durante della serata, c’è il dietro e c’è il davanti, ovvero il pubblico coprotagonista e anche più. Il prima è in una cascina riadattata a studio dove si è provato, con mascherina sul viso, tranne il cantante in quanto tale. Bassa padana, fra la via Emilia e il West, o fra lambrusco e poc-corn che dir si voglia. E poi, quel giorno, il retropalco, con anche le interviste ai sei ospiti, Elisa, Bertè, Finardi, Gazzelle, Pagani, De Gregori, compagni di momenti diversi della storia del Liga chiamati a puntellare con lui qualche canzone. Il film ne mette in fila parecchie, di canzoni, compresa Non è tempo per noi, che era nel primo fremente, biografico disco. 1990, l’anno fatato in cui un ragazzo di provincia fa un bel salto. Aveva già trent’anni Luciano e non era ancora artisticamente nessuno. Ed eccolo oggi, 63 anni qualche giorno fa, a rappresentare qualcosa e soprattutto qualcuno. Tanti. Uomini e donne, ragazzi e ragazze, quasi tutti nati quando il rock aveva già preso forma e contenuti, che hanno fatto il loro ingresso in società quando la politica come documento d’identità si stava ingiallendo o era già bell’e sbriciolata. E difatti le sue canzoni non hanno riferimenti politici, sono decisamente più dalle parti della sfera esistenziale, eppure sono innestate di ideali, passioni collettive, approcci etici, cultura, sociale. Agguantano il mondo dalla parte del quotidiano. C’è anche questo fra le righe del film, specie quando Ligabue e i suoi sodali ripercorrono momenti e persone della sua e loro storia. Compreso questo spazio enorme a venti minuti da casa.
«A Campovolo ci abbiamo festeggiato tappe importanti della mia carriera. Il primo, nel 2005, era nato per presentare il mio album più personale, Nome e cognome, perché avevo bisogno di farlo dalle mie parti. Nessuno poteva immaginarsi cosa sarebbe successo dopo. Ed è strano visto che di solito si dice “nemo propheta in patria”». Quello dello scorso anno era il quarto Campovolo, ma era anche l’inaugurazione della Rcf Arena, un posto unico in Europa, concepito e partorito da Maioli («la mia follia», dice lui nel film). Sul palco tre band diverse e rodate, complici, cariche, arrangiamenti azzeccati, voglia di stare insieme. Un evento, come si dice. Ed ora due ore di pellicola che si srotola tra facce e parole, musica e ritmo. « È un docufilm musicale con un lieto fine ma anche un lieto inizio. È lieto dall’inizio alla fine», sorride il protagonista. Il regista è Marco Salom. Ha filmato gli ultimi cinque giorni, dal count down all’esplosione, cercando di non invadere troppo lo spazio vitale del rocker, che in quei giorni era un cavo dell'alta tensione. E, racconta, per non prendersi i suoi improperi arrivava a nascondersi dietro gli alberi («ma male, perché lo vedevo», sbuffa il ragazzo brizzolato di Correggio). Il film si prende il gusto del racconto. Campi lunghi col drone e ritratti dei musicisti, degli spettatori, a campione sui 100mila che c’erano. « All’inizio – ricorda Liga c’era ancora la luce del giorno ed ho visto bene la liberazione nella gente quando abbiamo cominciato» C’è questo nel film, «c’è il bisogno della normalità e c’è la celebrazione della vita» e, ça va sans dire, un po’ anche quella di Luciano Ligabue. Che ora scalpita e ricomincia: 5 luglio a San Siro, 14 luglio all’Olimpico a Roma. Altri campi, altri voli. © RIPRODUZIONE RISERVATA