Critica degli anni 80. L'arte italiana ha perduto il suo “genius loci”?
La Strada Novissima ideata da Paolo Portoghesi per la Biennale di Venezia del 1980
Genius loci è una espressione che invita a pensare a qualcosa che lega, come un cordone ombelicale, a un luogo che ha un valore originario, oppure fondativo. E può trattarsi anche di un frutto di quel luogo che ne diventa un emblema. Per Stefano Chiodi, critico e filosofo, che ha impresso questo titolo al suo ultimo libro edito da Quodlibet (pagine 140, euro 12) dove delinea l'«anatomia di un mito italiano», genius loci è il tema della ricerca dell’identità italiana. Ma – saltando subito alle conclusioni – Chiodi scrive che questo problema, emerso con insistenza nel discorso artistico e culturale degli anni Ottanta, e in definitiva come tema della postmodernità (della quale oggi si sente parlare sempre meno), prefigura un «genius loci come soluzione immaginaria a un problema reale: la caduta degli ideali politici, sociali ed estetici che avevano orientato la ricostruzione e i Sessanta». Si tratta, secondo Chiodi, di un classico caso di incapacità di far parlare in quell’espressione l’inconscio politico. A me verrebbe da dire il contrario: genius loci fu la risposta còlta alla questione del riflusso seguito alla crisi dei valori politici dopo gli Anni di Piombo, il delitto Moro e tutto quello che ne consegue fino agli anni Novanta. C’è bisogno di salvare qualcosa della nostra coscienza nazionale ferita e dopo il delitto Moro le stesse forze di sinistra che proponevano un cambiamento e avevano alimentato la contestazione sostenendo i moti giovanili, nella “notte della Repubblica” si stringono attorno alle forze che rappresentano la conservazione.
Non a caso – e nel libro di Chiodi non se ne parla mentre a mio parere è un tema che segna proprio quegli anni – nella gestione urbanistica e architettonica delle nostre città storiche s’impone la “teoria della conservazione” del tessuto antico che, accanto alla giusta tutela dei beni storici, impone regole che contrastano col buon senso e le necessità abitative che non sono più le stesse dei cittadini del passato. Una ideologia che si radica a sinistra e segue le teorie dell’architetto Pier Luigi Cervellati (il quale le applica anche all’idea di città post industriale e tende alla fossilizzazione del tessuto antico sulla base di tipologie e schemi che concepiscono la città come una sorta di reperto archeologico da tenere sotto una campana di vetro). Al di là delle critiche che si possono rivolgere a questa tendenza, essa è la rappresentazione fedele di una chiusura, un arrocco sul passato e la sua presunta qualità superiore rispetto al presente, che respinge la sperimentazione e la ricerca di nuove soluzioni perché, sostanzialmente, spaventano chi, ormai, ha perduto ideologie e valori progettuali con la crisi di quelli che il filosofo francese Lyotard chiamava i “grandi racconti” ovvero i sistemi filosofici totalizzanti.
Gli anni Ottanta non sono quelli di uscita dall’atmosfera plumbea terroristica, perché la grande scommessa socialista della modernizzazione craxiana – che aveva per testimonial la Milano da bere e le balere di De Michelis – si gioca dentro un decennio le cui parentesi sono segnate da tre omicidi: nel 1982 il generale Dalla Chiesa e, dieci anni dopo, nel 1992, Falcone e Borsellino. Gli attentati ai due magistrati chiudono il decennio delle illusioni e aprono quello di Tangentopoli. Nel mezzo avviene anche il cosiddetto “ritorno alla pittura” e al mestiere, tenuti a battesimo dalla mostra degli anni Trenta (a Milano nel 1982), vera certificazione complessiva del genius loci italiano, ahimè nel decennio di consolidamento del fascismo. Anche di questa mostra Chiodi non parla, eppure gli anni Ottanta e i loro artefici guardarono moltissimo a quel decennio. La mostra di Milano fu senza dubbio un atto di sdoganamento dopo le scomuniche della sinistra verso molti artisti vicini al regime (Sironi, per esempio), che fece vedere come quel periodo doloroso della storia italiana aveva espresso una qualità artistica altissima. Ed ebbe un senso diverso e più importante culturalmente da quello della Strada Novissima di Portoghesi e del Teatro del mondo di Aldo Rossi nel 1980 a Venezia, atto ufficiale del postmoderno in Italia. Furono, a vario titolo, gesti poetici, quelli di Rossi e Portoghesi, che suscitarono un decennio di figurazione più o meno ludica, agendo sul già citato “inconscio politico” italiano come prova della caduta dei valori sociali e di una cultura orfana dell’impegno.
Mentre guardiamo la mostra delle Gallerie d’Italia, non dimentichiamo che una delle parole più presenti nel dibattito critico, estetico e artistico degli anni Ottanta fu “nichilismo”. Alcuni vedevano nell’ironia e nel tono ludico dei postmoderni un cinismo nato dalla crisi degli ideali. E non è un caso che uno dei maestri omaggiati dagli artisti fra anni Settanta e Ottanta fosse De Chirico – una mostra a Torino curata da Lorenzo Canova due anni fa componendo un teatro di queste citazioni (alcuni erano esponenti dell’Arte Povera e della Transavanguardia) –, che negli anni Dieci aveva dipinto le piazze d’Italia popolandole di ombre e forme classiche desolate richiamandosi a Nietzsche e al nichilismo. De Chirico, il quale – scrive Chiodi – era il riferimento per un recupero del “classico” come «inimitabile mistura di ambivalenza, sottigliezza e ironia». Tre qualità del carattere che contrassegna una nazione dove il genius loci vuole mascherare una incredulità e una mancanza d’identità per un paese la cui unificazione rischia di essere solo una “espressione geografica”, perché gli italiani degli ultimi cent’anni non hanno mai affrontato definitivamente la questione storica che riguarda il fascismo, la sua fine e tutto ciò che ne è seguito come esito di un’onda concentrica che si allarga ancora ai nostri giorni, oltre le polemiche fra destra e sinistra che spesso sono soltanto un modo per alimentare un confronto politico viziato proprio da questo nodo irrisolto.