A cosa serve oggi il patrimonio archeologico? Ha senso programmare campagne di scavo all’estero, soprattutto in aree come Medio Oriente o Nordafrica, dove le rivolte contro i vari governi in alcuni casi sono sfociate in vere e proprie guerre? E quale contributo può venire dalle istituzioni o dagli sponsor privati? Sono alcune delle domande più urgenti che si pongono gli esperti che intervengono domani al convegno sulla «Cooperazione internazionale per il patrimonio archeologico» all’École Française di Roma, uno dei principali eventi nell’ambito della seconda edizione di «Diplomacy», il festival internazionale dedicato alla diplomazia. La ricerca, oggi, è davanti a un bivio: da una parte, strumenti innovativi e tecnologie approfondite hanno fatto compiere grandi passi avanti nello studio del mondo antico - si vedano i successi di una delle discipline più recenti, l’archeologia subacquea - dall’altra, i conflitti in molti Paesi (si pensi al Nordafrica) hanno messo a rischio molte missioni. Dagli ultimi dati diffusi in occasione del convegno, una cosa è chiara: la ricerca oggi è più attiva che mai, con 800 operazioni annuali condotte da circa duemila operatori al di fuori dei loro Paesi di origine, e con 14mila lavoratori
in situ. La novità principale, però, è un’altra. «Stiamo assistendo ad un risveglio dell’identità culturale in questi Paesi, gli abitanti si stanno riappropriando di quello che ormai considerano il
loro patrimonio. L’attenzione, insomma, si è decuplicata». Ne è convinta Luisa Musso, docente all’Università di Roma Tre di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana e di Archeologia delle Province romane, che dal 1995 dirige la missione dell’università a Leptis Magna, in Tripolitania.
Professoressa, oltre a questo risveglio dell’identità culturale, è cambiato qualcosa anche nel vostro lavoro all’estero?«Certamente. Lo stesso concetto di missione non è più quello di mezzo secolo fa: la vera sfida oggi è la conservazione, insieme con le strategie del restauro e con la valorizzazione di monumenti e reperti. Se prima lo scavo serviva ad ampliare le conoscenze nel campo ristretto del mondo scientifico, oggi si rivolge a un pubblico molto più vasto. Senza contare l’importanza delle altre attività correlate come i progetti di formazione del personale locale, come quelli che avevamo a Tripoli».
Parlando proprio di Libia, cosa ne è dei suoi monumenti? Sa se ci sono stati danni gravi?«L’ultima volta che ci sono stata risale a dicembre; i restauratori della nostra missione sono rimasti fino a febbraio, poco prima che scoppiasse la guerra. Ora la situazione è legata al governo transitorio; in attesa che venga normalizzata, non sappiamo quanto ci vorrà prima che si possa tornare al lavoro. Le previsioni vanno dai prossimi tre mesi alla fine del 2012, ma c’è ovviamente una grande incertezza. Per quanto riguarda i principali siti - Sabratha, Leptis Magna e Cirene - posso dire che non ci sono stati danni gravi. Il "Guardian" ha riportato la notizia che un mese fa, l’11 settembre, i ribelli sono entrati nel museo di Tripoli, dove hanno rimosso le effigi di Gheddafi. Fortunatamente non ci sono stati assalti ai monumenti, proprio grazie a quella nuova attenzione al patrimonio di cui parlavo prima. Poi ci sono altri siti "minori" che si trovano in mezzo ai teatri di guerra e dove sono caduti missili e bombe: mi riferisco, ad esempio, a Beni Ulid in Tripolitania, dove c’è un museo della cultura locale che raccoglie rilievi e manufatti in ceramica da alcuni mausolei nel deserto di epoca imperiale, che testimoniano il sincretismo tra la cultura locale e quella romana. Su questi, purtroppo, non si sa molto».
Ci sono aree ancora inesplorate o riportate alla luce solo in parte?«Tutte quelle che ho citato a partire da Cirene, dove sono stati condotti gli scavi tra gli anni Trenta e il secondo dopoguerra, possono ancora riservare molte sorprese: sono state tutte scavate per meno della metà, compreso il centro della stessa Leptis Magna. Ma bisogna prima mettere in sicurezza il territorio, e poi vedere quali saranno i nuovi accordi a livello politico».
C’è il rischio concreto che molte missioni possano non ripartire?«Intanto noi europei dobbiamo smettere di avere una visione neo colonialista: possiamo varare progetti di formazione e cooperazione, nella speranza che entro una generazione il personale locale di musei o siti archeologici sia autonomo. Il vero problema, che porrò domani al convegno, è legato al
budget. La Francia, ad esempio, fa programmi a lungo termine, ma l’Italia? Da noi le università boccheggiano per mancanza di fondi, chi finanzierà le prossime missioni? Il ministero per gli Affari esteri ci dava fino a tremila euro, che per il nostro lavoro è pochissimo, e non possiamo contare solo su sponsor privati come l’Eni, che pure finora ci ha sostenuto».
Quali soluzioni vede all’orizzonte?«A mio avviso, servono strategie comuni a livello europeo: l’ultima missione in Libia l’ho svolta con colleghi inglesi, e si tratta sempre di collaborazioni importanti perché sono occasioni per scambiarsi idee e informazioni. Queste missioni, inoltre, ci chiedono progetti di formazione lunghi sia per quanto riguarda la didattica in Italia che quella sul posto, ed è giusto che sia così. La formazione richiede costi alti e tempi lunghi. In futuro, però, questi Paesi finiranno con lo scaricarci: in Turchia, per esempio, negli ultimi anni è calato il numero di molte missioni italiane. Attualmente ce ne sono circa cinquanta, ma i turchi esigono
budget di un certo tipo, scambi culturali tra gli studenti delle varie università, campagne di restauro; e se da parte nostra non c’è disponibilità, ci mandano via. E allora dobbiamo chiederci: l’archeologia ha ancora un valore? Ci interessa o no? Perché è da qui che bisogna ripartire».