Agorà

IL CASO. Libia, gli italiani che fecero il Muro

Antonio Airò mercoledì 20 febbraio 2013
La dichiarazione solenne ed ufficiale del maresciallo Piero Badoglio, massima autorità militare italiana, annunciava il 24 gennaio 1932: «La ribellione in Cirenaica è completamente e definitivamente stroncata… Per la prima volta, dopo vent’anni dallo sbarco su queste terre, le due colonie sono completamente occupate e pacificate». L’annuncio aveva però un sorprendente risvolto: l’opinione pubblica italiana veniva infatti a conoscere per la prima volta che Tripolitania e Cirenaica non erano mai state «sotto la sovranità piena e intera del Regno d’Italia», come invece recitava il Regio decreto 5 novembre 1911 a un mese dallo sbarco a Tripoli del corpo di spedizione del generale Caneva, forte di 35.000 uomini... L’annuncio di Badoglio rompeva un lungo silenzio delle istituzioni politiche e militari sulla nostra presenza nella lontana «quarta sponda». Per il nostro Paese, infatti, «possedere la Libia, possederla tutta, significava avere lo status di grande potenza (per l’Italia liberale) o addirittura sognare di essere un impero (per il regime fascista)»; le cose non stavano invece così e solo recentemente la lunga «riconquista» della Libia ha cominciato ad essere dipanata, come provano il volume dello storico Nicola Labanca La guerra italiana per la Libia (Il Mulino, pp. 294, euro 24) e quello più «ufficiale» con ampia documentazione fotografica dello Stato maggiore dell’esercito, curato da Federica Saini Fasanotti, Libia 1922-1931. Le operazioni militari italiane (pp. 432, euro 25). Anzitutto – dopo la breve guerra di Libia conclusa l’8 ottobre 1912 con il trattato di Losanna, nel quale l’impero ottomano riconosceva il successo di Roma – si sarebbe dovuta attendere l’estate del 1913, cent’anni fa, per registrare il ritiro effettivo dei militari di Costantinopoli e il più esteso controllo delle nostre truppe anche nelle aree interne delle due regioni.
Inoltre il bilancio della guerra italo-turca, al di là dei pesanti costi economici per il crescente numero di militari inviati in colonia (nel 1913 si era arrivati a un contingente di quasi centomila uomini, in massima parte di leva e quindi senza nessuna esperienza coloniale), comportò anche 3439 connazionali caduti, dei quali 1948 per malattia – a conferma delle inospitali condizioni climatiche e sanitarie della Libia. E nonostante ciò la presenza italiana sarebbe stata ben presto messa in discussione dalla resistenza e da una persistente guerriglia delle tribù della Tripolitania e della potente confraternita (insieme istituzione religiosa e politica) della Senussia, che in Cirenaica costrinse i nostri militari a rinserrarsi nelle città della costa. Di qui il ricorso anche a drastiche misure come la deportazione massiccia di migliaia di libici nelle isole italiane (per tutte le Tremiti). La vittoria sembrò a lungo a portata di mano dei ribelli, anche se divisi tra loro, tanto che alcuni notabili della Tripolitania erano arrivati a proclamare uno repubblica per dimostrare che potevano governarsi da soli. In sostanza, al termine della Grande Guerra l’Italia non aveva praticamente il controllo politico e militare della Libia; anche la scelta di riconoscere alla Senussia rappresentanza politica e autonomia su determinate materie non ebbe esito positivo. La colonia doveva quindi doveva essere «riconquistata» con ogni mezzo. Ed è quanto negli anni Venti sarà fatto, prima dal governo liberale Giolitti con l’invio del conte Giuseppe Volpi di Misurata come governatore, poi dal regime di Mussolini, che invitò a «pestare sodo» gli oppositori libici e scelse come governatore il quadrumviro Emilio Bono. Questa «riconquista» territoriale, prima della Tripolitania (si sarebbe conclusa nel 1924) e poi quella più lunga della Cirenaica, era affidata soprattutto a un esercito profondamente trasformato, nel quale avevano ruoli crescenti ufficiali dotati di più approfondita conoscenza culturale del mondo libico e diventavano più numerosi i reparti militari indigeni – ascari eritrei e nativi.
Senza dimenticare la notevole rivoluzione tecnologica: la motorizzazione dei reparti, il ricorso maggiore all’artiglieria e l’uso massiccio dell’aviazione per le scorte alle colonne in movimento, la vigilanza sulle coste e sul deserto, i bombardamenti dei ribelli (anche con le armi chimiche) furono determinanti per il successo delle nostre forze armate. Nel dicembre 1928 Badoglio veniva nominato governatore unico della Libia (il generale Rodolfo Graziani sarebbe divenuto vice-governatore per la Cirenaica) e si avviava la riconquista definitiva della colonia con la vittoria sullo zoccolo duro della resistenza, testimoniata dalla cattura l’11 settembre 1931 del suo leader Omar al Mukthar, subito processato e impiccato sullo spiazzo centrale del campo di concentramento di Salluch. La resistenza anti-italiana aveva perso l’appoggio di molte popolazioni, per la scomparsa di non pochi capi, e non aveva trovato sostegno sufficiente nell’opinione pubblica mondiale. Graziani pose in opera addirittura un reticolato di 270 km per ostacolare il passaggio di viveri e armi sul confine tra la Libia e l’Egitto. Il «muro» ante litteram richiese l’opera di 2500 operai civili e 1200 militari e per la sua vigilanza furono organizzate 7 compagnie di ascari eritrei e un reparto sahariano; per Graziani l’«immane opera» era indispensabile perché «le ribellioni si vincono anzitutto precludendo ogni via di rifornimento».
Ma il ripristino della piena sovranità italiana fu segnato da momenti di estrema durezza, con la deportazione massiccia di popolazioni seminomadi e il loro disarmo completo, con perquisizioni tese a separare i capi tribù dalla loro gente, con rastrellamenti continui. Se certamente queste misure non sono paragonabili a quelle dei lager nazisti, non vi è dubbio che siamo di fronte a una pagina sulla quale la storiografia italiana non si è finora soffermata abbastanza.