I FORUM DI AVVENIRE. Elogio LIBERALE dell'imperfezione
Alessandro Zaccuridomenica 24 aprile 2016
Di libertà non ce n’è mai abbastanza. Fino a quando non diventa troppa e non si trasforma in qualcos’altro: vertigine o licenza, le definizioni possono variare, ma basta guardarsi intorno per capire di che cosa stiamo parlando. L’emergenza antropologica di questi anni è un problema per le diverse tradizioni politiche che hanno intrecciato la loro storia con quella del nostro Paese. È un dilemma per la sinistra, come ha dimostrato il forum promosso da “Avvenire” (10 aprile), al quale ha fatto seguito l’intervista al filosofo e senatore Pd Mario Tronti (20 aprile). Ma la deriva libertaria non piace neppure ai liberali protagonisti del dibattito svoltosi martedì 19 aprile presso la sede romana del nostro quotidiano. A dialogare tra loro, oltre che con il direttore Marco Tarquinio e con numerosi colleghi della redazione di “Avvenire”, sono stati quattro intellettuali di generazioni diverse, accomunati dal tentativo di ridefinire i termini della questione, anche nella prospettiva di una ritrovata presenza sulla scena politica. Giuliano Urbani, anzitutto: politologo e docente universitario, è stato tra i fondatori di Forza Italia e ha guidato ministeri di rilievo (compreso quello dei Beni culturali). Dalla ricerca accademica proviene anche il costituzionalista Gaetano Quagliariello, oggi senatore e leader della formazione di centrodestra Idea. A sua volta politologo, Flavio Felice è uno dei massimi esperti di Dottrina sociale della Chiesa, mentre Antonio Gurrado, firma ricorrente del “Foglio”, si dedica in particolare allo studio del pensiero religioso del XVIII secolo.
Il Forum di Avvenire: da sinistra Tarquinio, Felice, Quagliariello, Urbani, Gurrado e ZaccuriAVVENIRE: Quando in Italia si parla di liberalismo si ha sempre l’impressione di dover fare un passo indietro per sgombrare il campo da equivoci. È davvero così? Felice: «Personalmente mi sono formato nella stagione della cosiddetta “rivoluzione liberale”, che ha ridato centralità a una serie di autori e di testi che, pur non del tutto sconosciuti nel nostro Paese, iniziavano solo allora a essere compresi nella loro importanza. C’è una figura che, più di ogni altra, mi pare riassuma questa fase storica, ed è quella di Giovanni Paolo II, la cui rilettura della dottrina sociale della Chiesa è stata determinante nell’elevare la figura del Papa polacco al rango di autentico araldo della libertà. È stato grazie a lui che un giovane come me, di formazione marxista, ha potuto comprendere come essere liberale non equivalga affatto ad essere conservatore. Al contrario, un’economia libera correttamente intesa è un formidabile strumento di inclusione sociale. Da allora in poi essere liberale, per me, significa essere democratico, al di là di qualsiasi opposizione fra destra e sinistra. Si tratta di una notazione che altrove nel mondo suona scontata, perché il liberalismo è un atteggiamento che attraversa trasversalmente i diversi schieramenti: è un metodo, non un partito. Così del resto lo teorizzavano e praticavano maestri come Friedrich von Hayek e don Luigi Sturzo». Urbani: «Ricostruzione ineccepibile, ma in questo momento confesso di trovarmi in una certa difficoltà nel definire con esattezza il liberalismo. Mi sembra qualcosa che sfugge da tutte le parti, tanto che l’accezione classica non ha ormai quasi più nulla a che vedere con il fenomeno attualmente indicato con il medesimo termine. Hayek, Sturzo e prima ancora Tocqueville rischiano di apparire come autori confinati in una dimensione storico-letteraria, del tutto estranea al modo in cui si concepisce oggi la politica. E questo, aggiungo, senza che neppure si capisca se ci troviamo in una situazione pre- o post-politica. Il motivo è molto semplice: i parametri ai quali facevamo riferimento in passato sono irrimediabilmente saltati, in senso sia qualitativo sia quantitativo. Per quanto mi riguarda, continuo a ritenermi liberale, ma faccio fa- tica a immaginare come il liberalismo possa applicarsi all’immigrazione, a questo impressionante movimento che avviene, in un modo o nell’altro, in un mondo di sette miliardi di persone. Mi piacerebbe tanto imbattermi in un Benjamin Constant che sappia dirmi che cosa è ancora vivo della tradizione a cui appartengo, perché non ho alcun dubbio sui princìpi che ho difeso per tutta la vita. Il dramma è che, se guardo alle istituzioni che dovrebbero attuarli, queste cascano da tutte le parti. Era facile per Montesquieu, che si rivolgeva a una società di eletti. Ma come dovremmo regolarci noi che abbiamo a che fare con quei famosi sette miliardi, tutti mobilitati anche in senso mediatico? Durante un recente viaggio in Kenya ero così preso dal mio entusiasmo per il buon selvaggio da non accorgermi che uno dei masai del villaggio che stavo visitando portava al polso uno smartwatch di ultima generazione. Sono ancora in contatto con lui, ogni tanto mi racconta di come gli capiti di seguire una conferenza a Oxford o leggere un saggio pubblicato da qualche altra parte senza mai muoversi dalla sua terra. Senza mai smettere di essere un masai. Bene, ma come si applicano a quest’uomo del XXI secolo i valori tradizionali del liberalismo?». Quagliariello: «Condivido le perplessità di Urbani, ma ho il sospetto che siano in qualche misura accentuate dalla particolare condizione del liberalismo italiano, che si è sempre trovato in una posizione di minorità, come già sosteneva tra gli altri Guido De Ruggiero. E questo per almeno due ragioni. La prima sta nel sostanziale relegamento del liberalismo italiano all’ambito ideale e culturale, sganciato da una applicazione economica. In secondo luogo, c’è il ruolo di contraltare al pensiero cattolico che il liberalismo ha svolto nel nostro Paese ponendosi così in discontinuità con altre scuole nazionali, prima fra tutte quella inglese, per le quali il legame con il fatto religioso è invece determinante. Si è verificato così un ritardo che, a partire dagli anni Novanta, è stato in qualche modo colmato dall’azione politica, ma che oggi torna a scontare la sproporzione rispetto a una serie di fenomeni impostisi con eccezionale rapidità. All’improvviso, sembrava che nel nostro Paese tutti fossero diventati liberali, ma non c’è stata sedimentazione e adesso, davanti a un mondo che cambia in modo tanto vertiginoso, ci si trova impreparati. Ci sarebbe bisogno di un’avanguardia, ma sappiamo che in politica questa è una posizione assai pericolosa: le corse in avanti portano a sbilanciarsi, a esporsi. Si provano a controllare le retrovie, allora, però anche in questo caso il compito non è agevole. Il rispetto di regole che fino a poco tempo fa ci parevano scontate è considerato pressoché irrilevante anche in ambito istituzionale, come abbiamo avuto modo di constatare durante il dibattito parlamentare sulle unioni civili. Il cosiddetto “supercanguro”, che avrebbe dovuto velocizzare i lavori, era un emendamentonon- emendamento privo di consistenza procedurale, eppure il Governo si è mostrato stupito quando le forze di opposizione, nella fattispecie il Movimento Cinque Stelle, si è opposto alla sua applicazione. È il segno che la separazione tra il contenuto di una legge e le regole che ne permettono l’approvazione non è più tenuta in alcun conto. Come se non bastasse, le istituzioni che fanno riferimento al contesto nazionale risultano sempre più indebolite, in conseguenza tanto della devoluzione quanto dell’ampliarsi di una sfera di potere locale e comunitario che, in molte situazioni, è l’unica realmente percepita. Di questo scenario occorre tenere conto per individuare quelli che potemmo definire come i nuovi nemici del liberalismo. Provo a segnalarne uno, a mio avviso il più pericoloso. Potremmo chiamarlo “perfettismo”, una tendenza già nota alla storia del Novecento, che in nome dell’inarrivabile utopia dell’egualitarismo economico non ha esitato a mettere in atto esperimenti sanguinari di ingegneria sociale. Adesso, per quel che mi pare di comprendere, l’obiettivo si è spostato sulla stessa natura dell’uomo e la sfida ha assunto, anche per il liberalismo, una connotazione antropologica». Gurrado: «Io invece appartengo alla generazione dei Millennials: vent’anni o giù di lì allo scoccare del Duemila, mentalità marcatamente post-ideologica, a partire dall’11 Settembre ci siamo trovati nella condizione di dover conciliare tra loro due spinte contrastanti. Da un lato c’era e continua a esserci la straordinaria naturalezza del viaggiare, in una dimensione di accentuato cosmopolitismo, mentre sull’altro versante è cresciuta la consapevolezza dell’esistenza di un nemico minaccioso e difficile da stanare. Per noi il liberalismo ha assunto i connotati di uno strano oggetto politico, istintivamente associato alla destra, dato che “liberale” si definiva appunto una delle componenti di Forza Italia. Ma non potevamo accontentarci di questa nozione, perché l’apertura internazionale, sia pure contrastata dal baratro del terrorismo, ci portava a riconoscere le caratteristiche liberal, progressiste, del liberalismo straniero, le cui posizioni in materia di bioetica o di gestione degli affetti mal si accordava all’ipoteca conservatrice che gravava sul liberalismo italiano. Forse però non si tratta di una vera contraddizione. Non so quanti, oltre ai presenti, ricordino i liberal-democratici di Nick Clegg, un politico dalle posizioni così anticonvenzionali da essere stato additato come ateo e europeista . Clegg doveva essere l’uomo nuovo alle elezioni del 2010 ed entrò come vicepremier nel governo di coalizione di David Cameron, che per l’occasione pronunciò due diversi discorsi di insediamento, in un clima quasi da emergenza nazionale. I conservatori, quella volta, inghiottirono il boccone amaro del liberalismo democratico, una scelta di opportunità politica che si è rivelata estremamente fruttuosa. Il risultato, a distanza di qualche anno, è che ora Cameron guida un governo monocolore, interamente composto da ministri conservatori, e di Clegg di sono perse le tracce». AVVENIRE: Ma in definitiva il liberalismo che cos’è? Un metodo, sia pure estremamente raffinato, oppure un contenuto di pensiero, una visione del mondo? La prepotente deriva mercatista (e finanziaria) del liberalismo economico, per esempio, è davvero estranea alle premesse del pensiero liberale o può essere in qualche modo ricondotta a esse? Felice: «Per quanto mi riguarda, il liberalismo è il metodo della libertà. Nessuna visione metafisica dell’individuo o delle istituzioni, ciò che conta è porre le condizioni per una diffusione dei diritti di proprietà che venga incontro alle istanze dei più deboli, finalmente riconosciuti come risorsa capace di arricchire l’intera società. La quale, secondo la lezione di don Sturzo, non è una realtà in sé autonoma, ma la “proiezione multipla, simultanea, continuativa dell’azione delle persone”. I tre agconcreta gettivi sono per me importantissimi, ma la nozione di “continuativo” è addirittura cruciale. Significa che per il liberale nessuna istituzione è mai definitiva, tutte sono il prodotto evolutivo di un ideale che lotta per realizzarsi. Oserei dire che per il liberale ciascuna istituzione, nel momento stesso in cui si pone come tale, è già vecchia, è già avvertita come un elemento conservativo da sottoporre alla spinta riformatrice. Ogni società, per dirla con Karl Popper, dev’essere società aperta, perché viviamo in un momento nel quale vige il teorema della radiazione dei problemi. Ecco perché, come già sottolineava Quagliariello, questo metodo che è il liberalismo ha come avversario la pretesa di perfezione. Per questo, quando assume un qualsiasi assetto istituzionale, il liberalismo ha a cuore più le persone che le istituzioni stesse. E la persona, per il liberale, è una realtà da cogliere nel suo aspetto più ampio e complesso: di questa complessità il liberalismo di domani dovrà tenere conto per rispondere in modo adeguato alle trasformazioni in atto, molte delle quali fanno leva sulla scissione interna dell’individuo. In questo senso, anch’io penso che la questione antropologica sia e sarà sempre di più il cardine del pensiero liberale, che tuttavia non pretenderà mai di esercitare una qualche forma di egemonia. In presenza di una legge che reputa ingiusta, il liberale pratica l’obiezione di coscienza e, qualora questa si riveli inefficace, è disposto ad accettare il martirio, perché è dal sangue dei martiri cristiani che nasce il liberalismo stesso. Così come quei testimoni della fede rifiutarono di adorare Cesare, il liberale non si sottomette agli idoli del momento, perché è sempre la coscienza a giudicare la società, mai il contrario. Oggi come nella Roma del I secolo, il liberale è colui che non si inginocchia davanti al potere». Quagliariello: «Il liberale, in effetti, ha una concezione abbastanza pessimista della natura umana. Sa di dover giocare spesso in difesa, dato che le ragioni della liberà sono tutt’altro che tutelate dalle sorti progressive della storia. Anzi, se si lascia fare alla storia gli esiti sono spesso drammatici.
Per realizzare la libertà, dunque, servono buone guarnigioni, come già sosteneva Popper. Su quale fronte schierare oggi questo piccolo esercito? A me pare che ce ne siano almeno quattro da tenere sotto controllo. Il primo è quello dell’economia, nel quale assistiamo allo stravolgimento dei rapporti tra mercato e finanza. In secondo luogo, c’è il problema dell’immigrazione, già sottolineato da Urbani: il progetto della società multiculturale e multietnica ha fallito ovunque, la questione del rapporto con l’islam è sempre più evidente, ma nessuno sembra intenzionato a farsene carico. Terzo elemento, il disequilibrio (inedito in questi termini) dei rapporti tra persona e società, per cui l’individuo non si riconosce più come parte di una comunità, ma si pone davanti alla comunità stessa come un tutto davanti a un tutto. Infine, l’emergenza antropologica alla quale ho fatto cenno in precedenza. Se il perfettismo del Novecento si declinava nell’ingegneria dell’egualitarismo sociale, oggi siamo di fronte al tentativo di trasferire la medesima tentazione sulla persona. Si punta a garantire una vita perfetta, controllabile in qualsiasi istante, da prima della nascita fin quasi dopo la morte. Ogni imprevisto va eliminato, nessuna meraviglia è più messa in conto, il futuro di ciascuno non ammette sorprese perché i desideri, come sappiamo, si trasformano in diritti, in modo da allontanare da noi lo spettro della frustrazione. Devo confessare che davanti a una pretesa di questo genere il mio liberalismo vacilla. Gli esiti di questo processo mi sembrano talmente mostruosi da invocare qualcosa di più della pur necessaria obiezione di coscienza. Quando la trasmutazione dei desideri in diritti coinvolge la vita degli altri, al liberale tocca di tirar fuori le unghie e lottare. Penso a una pretesa di genitorialità che porti alla moltiplicazione indiscriminata delle figure materne, cancellando di conseguenza il diritto all’identità personale del nascituro. Questo, per essere chiari, non può essere tollerato. Anche e specialmente, aggiungo, per amore della libertà». Urbani: «Non c’è niente da fare, il perfettismo tende sempre all’egualitarismo, magari nella forma dell’indifferenziazione: tutto è uguale a tutto il resto, inutile affannarsi a operare distinzioni. Mi sbaglierò, ma oggi come oggi questa è una lotta impari, le premesse generali sono talmente vaghe e confuse da rendere pressoché irrilevanti i nostri sforzi. Mancando i fondamentali, non ci si arriva mai a intendere sulle questioni di fondo. Nonostante questo, però, anch’io mi sento di indicare due ambiti rispetto ai quali il liberalismo ci è ancora indispensabile. In primo luogo la tutela dell’habitat naturale, il cui stravolgimento procede a lunghe falcate. Una tragedia che va sventata a ogni costo perché, non avessero altro in comune, i famosi sette miliardi hanno in comune il mondo in cui vivono. Questa, inoltre, è la radice stessa della polis, del nostro vivere insieme secondo diritto. Ed è da questa consapevolezza che occorre ripartire, in concreto, per riconoscere che abbiamo qualcosa in comune, da difendere insieme. Può sembrare un obiettivo modesto, ma sono convinto che ci concentrassimo su questo molte delle stupidaggini di cui siamo vittime e artefici sarebbero meno inevitabili. In parallelo a questa dimensione collettiva, c’è quella individuale, che rappresenta il secondo aspetto dell’attualità liberale. È il grande tema della responsabilità, del “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. In gioco non c’è soltanto la discendenza (che a me pare autoevidente) del liberalismo dal cristianesimo, ma anche la valorizzazione di qualsiasi acquisizione in questo senso. Passi anche minimi, eppure oggi più che mai preziosi per far uscire dalle biblioteche gli ideali del pensiero liberale. Più ci penso, più mi persuado che dovremmo prendere a modello il mio amico masai: vivere in questo mondo, connessi a ogni altro individuo, e insieme vivere come facevano gli avi, con il senso e nel rispetto di una tradizione antichissima». Gurrado: «Resta ancora un dilemma da affrontare, però. E non marginale. L’uomo è per natura buono o cattivo? Ha ragione Hobbes, con il suo homo homini lupus, o Locke, con l’apprezzamento dello stato di natura? Il liberale, d’istinto, sta con quest’ultimo: l’essere umano sarà pure un bestione, ma è capace di progredire nell’interesse proprio e della comunità. Per il cristiano, e per il cattolico in particolare, la faccenda è un po’ più complicata: segnato dal peccato originale, l’uomo diventa buono solo attraverso la conversione. Provo a spiegarmi. La prospettiva di un’accoglienza indiscriminata nei confronti dei migranti deve molto, oltre che al Vangelo, alla visione illuministica, per cui l’esistenza di un Dio Padre non si sa quanto simbolico è presa a garanzia del carattere universale dei diritti dell’uomo. Con questo non voglio sminuire un gesto come quello compiuto da papa Francesco a Lesbo non più tardi di una settimana fa. Mi preme invece sottolineare come, anche in questa circostanza, metodo e contenuto si trovino a combaciare e vadano quindi calibrati di volta in volta. Francesco ha aperto un nuovo scenario per l’accoglienza, d’accordo. Ma non c’è il rischio che qualcuno, ritenendo per sé “naturalmente buona” una determinata soluzione, provi a convincerci della liceità dell’utero in affitto o del matrimonio omosessuale? Il migliore antidoto, a mio avviso, è costituito dal “pessimismo liberale” già evocato dal senatore Quagliariello: solo mettendo in discussione l’innata bontà dell’essere umano potremo evitare che, in nome di quella bontà presunta, si compiano altre nefandezze».