La globalizzazione è ancora in corso d’opera: eppure mai come ora se ne parla, quasi che si dovesse accelerarla oppure rallentarla secondo il punto di vista dei più innovatori oppure quello dei più misoneisti. L’intenso sviluppo dei mezzi di comunicazione e soprattutto di telecomunicazione, la facilità di accesso alle tecnologie più recenti e innovative, la crescita culturale di imprenditori e manager pronti – molto più che per il passato – a considerare l’intero pianeta terreno fertile per far nascere e far crescere attività imprenditoriali, hanno reso la globalizzazione non soltanto possibile e oggi addirittura consueta, ma anche una corrente culturale alla quale non ci si può sottrarre. Di colpo tutto ciò che è domestico è provinciale, polveroso, povero? L’imprenditoria italiana, con slancio, si è messa a nuotare secondo la corrente.Ciò peraltro avviene anche da parte dei nostri concorrenti di altri Paesi «occidentali» (come si chiamavano ai tempi del vergognoso muro di Berlino ancora eretto): tutti dunque cavalchiamo con foga questa rivoluzione culturale – se mi consentite il termine un po’ usurato –. Sottolineo culturale perché la rivoluzione è innanzi tutto culturale e soltanto successivamente darà delle ricadute economiche, spesso anche molto profittevoli. Abbandonare il porto sicuro della domesticità e mettersi a navigare in mare aperto o in pieno oceano richiede qualche dote personale in più, una diversa preparazione e formazione, il sapere fare gioco di squadra, il che non è proprio una qualità nostrana. Globalizzare un’azienda non significa esportare in tutto il mondo, significa produrre beni e servizi ovunque, pertanto acquisire una conoscenza approfondita delle leggi locali, dei problemi sindacali dei Paesi, delle regole finanziarie dei siti in cui si investe, per citare soltanto quanto viene in mente.L’imprenditore che evolve e si adegua all’esigenza di trovare spazi più ampi dove operare porta con sé non solo l’esperienza professionale maturata nel settore e nel mercato in cui opera, ma anche una serie di valori di base che gli hanno consentito il successo, di cui generalmente ha permeato l’azienda e che costituiscono la sua impronta nell’azienda. È evidente che questo bagaglio valoriale subirà delle correzioni imposte da «regole del gioco» diverse con le quali dovrà far di conto, andando ad affrontare situazioni molto differenti da quelle alle quali era abituato nel mercato domestico. L’importante però è che i valori etici di base vengano mantenuti come punti fissi del suo agire: non si può infatti applicare una doppia morale, quella di casa e quella per il resto del mondo. L’imprenditore porta lavoro e sviluppo, anche in ambienti difficili. Anzi, questa sembra una specialità tutta italiana: infatti ci siamo affacciati sulla scena mondiale con un notevole ritardo rispetto a colleghi imprenditori di altre nazioni «occidentali», quindi abbiamo trovato occupati i posti migliori e ci siamo dovuti accontentare dei posti meno attraenti, nei Paesi più ostici: sarà poi nostro compito fare sì che i risultati siano comunque corrispondenti alle attese. Papa Wojtyla aveva detto: «La globalizzazione a priori non è né buona né cattiva. Essa sarà ciò che gli uomini faranno». Parole forti, come si vede, che richiamano appunto il nostro senso di responsabilità. Sta a noi agire in modo che l’allargamento del mercato all’intero pianeta permetta di mantenere fermi i due capisaldi richiamati.Un altro punto merita un cenno, quello del «governo dell’economia», quasi che si volesse invocare un governo sovranazionale che può portare al totalitarismo. Così la paura della globalizzazione, indebitamente demonizzata, può portare fuori strada. C’è invece da invocare l’estensione a tutti coloro che operano nel mercato globale di regole del gioco comuni e tra queste anche l’attenzione ai problemi sociali. Soltanto così, infatti – ma la strada è lunga e faticosa – la globalizzazione sarà foriera soprattutto di benessere e non di tensioni e nuove povertà. Soltanto quindi facendo entrare nei libri di testo per la formazione aziendale questo tipo di attenzione al sociale planetario (e non solo e non tanto per soddisfare il «popolo di Seattle») si potrà guardare con tranquilla serenità all’inevitabile avanzata della globalizzazione. Sta a noi darci da fare per correggere le distorsioni che un fatto di tale importanza può portare.