Il traliccio categoriale attraverso il quale Sturzo giungeva a definire il
proprium della politica scaturiva dalle esperienze fatte in materia, ma non attingeva (o non attingeva più) ai tradizionali paradigmi dell’intransigentismo cattolico, come, peraltro, non attingeva a nessuno dei grandi quadri o sistemi teorici in cui si era espresso il pensiero politico moderno e contemporaneo. Non ai secondi, per la semplice ma decisiva ragione che, dal suo punto di vista, quei quadri e sistemi avevano assunto e continuavano ad assumere come postulato l’identificazione del "politico" con la vita e le istituzioni dello Stato moderno (al punto che financo le fuoriuscite dallo Stato preconizzate, per esempio, dal marxismo s’identificavano con la fine o l’esaurimento dalla politica): e questo era esattamente il nocciolo teorico che Sturzo intendeva erodere e sgretolare (valga in proposito il capitolo XI, «La tendenza verso l’unificazione e lo Stato moderno», di
La società, sua natura e leggi). D’altra parte, Sturzo aveva lasciato alle sue spalle il costrutto paradigmatico del cattolicesimo intransigente, secondo cui la storia della modernità politica e dello Stato moderno trovava le proprie originarie radici nella sovversione religiosa della Riforma e nella frattura della cristianità, che avevano fatalmente generato tutte le successive deviazioni e "deliramenti" di natura teorica e pratica (liberalismo, socialismo ecc.). La lettura critica che Sturzo metteva in campo nei confronti dello Stato moderno (asse portante della sua riflessione) non era meno polemica di quella appartenente alla tradizione dell’intransigentismo, né trascurava i fattori religiosi che avevano contrassegnato la sua storia, ma da quella tradizione si distaccava irreversibilmente per l’apparato argomentativo tutt’affatto diverso di cui si avvaleva: nel senso preciso che la critica sturziana muoveva, per così dire, dall’interno e non dall’esterno della storia dello Stato moderno (e qui l’eredità del cattolicesimo liberale era, direi, prorompente), e nel contempo la liberava da ogni residuo fatalistico o consequenziario, implicito in una sua lettura basata sulla pura concatenazione di errori dottrinali. Tant’è vero che l’analisi del fenomeno totalitario, pur raffigurato come estremo e radicale sviluppo di linee di tendenza insite nella storia dello Stato moderno, non aveva tuttavia nulla di deterministico in Sturzo, che rappresentava, invece, il totalitarismo come una "possibilità" che si era purtroppo realizzata, ma che, oltre a potere e a dovere essere combattuta, era destinata a percorrere una parabola auto-distruttiva e catastrofica. Se dunque la critica dello Stato moderno poteva servire a contrastare, a maggior ragione, i suoi "possibili" esiti totalitari divenuti realtà, essa conservava intatta la sua validità anche a prescindere da tali esiti, proprio perché riconosceva le ragioni obiettive e diciamo pure positive, della sua formazione e della sua storia (Sturzo parlava di «lato razionale» e di «lato irrazionale» dello Stato moderno), rifiutandosi però di considerarlo alla stregua di una estrema autenticazione di ogni possibile dimensione del "politico". Mi vien da dire, a questo punto, che, superato il paradigma intransigente e collocatosi in posizione critica nei confronti di tutte le moderne teoriche politiche, Sturzo poteva sembrare, e sotto molti aspetti lo era realmente, un pesce fuor d’acqua, o un pesce che nuotava in altre acque. Fortunatamente (per noi), di pesci fuor d’acqua, senza i quali la cultura politica del ’900 sarebbe stata molto più povera e ripetitiva, ce ne furono parecchi in giro per il mondo, specie nei decenni tra le due guerre. (...)Nondimeno le recenti drammatiche esperienze di regimi totalitari sorti in Occidente nel rispetto delle forme e delle procedure democratiche, consolidarono in Sturzo la convinzione che nessuna garanzia di natura istituzionale o procedurale poteva costituire un limite definitivamente efficace all’espansione del potere politico, risolvere, insomma, il problema cardinale della politica moderna. Per questa ragione il focus del suo discorso si spostava dagli istituti e dalle forme della politica ai problemi connessi all’etica sociale, nel senso che abbiamo detto, e alla cultura politica, qui intesa precisamente come modalità diffuse e interiorizzate di porsi nei confronti della politica. Ciò avveniva in una doppia prospettiva: nella definizione non tanto della fonte originaria del potere politico, quanto delle sue condizioni di esercizio; e, in secondo luogo, nel primato dell’etica sulla politica.Sul primo punto, in coerenza con l’idea della coscienza come luogo preminente della socialità, Sturzo proponeva una concezione interiorizzata del potere politico, nel senso del suo radicamento nella coscienza sociale, ragione primordiale della sua legittimità o, per meglio dire, dei processi di legittimazione variamente attestati dalla storia. Ma se nessun potere politico era per Sturzo capace di mantenersi senza qualche grado di consenso, dal grado e dalla qualità del consenso, connesso alle diverse situazioni storiche, dipendeva la sua corrispondenza alle esigenze profonde di una specifica comunità umana.Nel contempo, l’essenziale componente etica della politica finiva per coincidere in Sturzo con la limitazione del potere (si veda
Morale e politica). Solo una coscienza sociale attrezzata eticamente avrebbe potuto opporre una resistenza invalicabile (fino al limite dell’obiezione di coscienza e al sacrificio della propria vita) alle pulsioni monistiche e monopolistiche del potere.La formazione delle coscienze, e di una cultura diffusa eticamente sensibile (che Sturzo non poteva concepire se non nel solco del cristianesimo e della "civiltà cristiana") poteva così diventare la più alta e sostanziale responsabilità politica, ristabilendo il circuito tra la vocazione strettamente sacerdotale e quell’«altra» vocazione sturziana.