La mostra a Torino. L'eros del Giappone è compassione per il tempo che fugge
Utagawa Hiroshige, “La giovane Hatsu”, 1846
Le mostre dedicate alla stampa e alla fotografia giapponese si sono moltiplicate negli anni. I richiami più poetici forse vengono dalla fotografia, ma poco è stato evidenziato il legame fra questa arte giovane e le arti tradizionali. Eppure la fotografia è una fonte dell’identità del Giappone ottocentesco. Nel 1853 le navi da guerra dell’ammiraglio Perry, Commodoro della Marina statunitense, arrivarono fin dentro la baia di Edo (Tokyo), e con la loro minacciosa presenza imposero in pochi mesi al Giappone un trattato di apertura commerciale all’Occidente. Quattordici anni dopo quel trattato, si verificò anche il crollo dell’ordine feudale retto dallo shogunato, e l'imperatore, fino a quel momento figura “nascosta”, salì suo malgrado alla ribalta: avvenne con una complessa opera di propaganda condotta per far immaginare al popolo giapponese un imperatore ancora ragazzino, inesperto di politica, ma che doveva diventare il testimone del nuovo potere. Il mezzo fu un ritratto eseguito dal pittore di origini genovesi Edoardo Chiossone, a cui furono fornite alcune foto di quel sovrano quindicenne; il pittore seguì le regole d’ingaggio, cioè dare del ragazzo una immagine credibile come leader politico e divino. Il quadro venne poi rifotografato e diffuso ovunque in milioni di copie. Questo “falso” storico è stato decostruito da un filosofo e storico giapponese, Koji Taki, quasi vent’anni fa, in un saggio scritto con uno stile à la Foucault ( Il ritratto dell’imperatore, Milano 2005). Dunque, per capire il Giappone che abbraccia la modernità già nel XVIII secolo coi suoi meravigliosi artefici di stampe, ma anche di oggetti e abiti, armature e utensili, si deve ricomporre il contrasto-confronto con la fotografia sviluppatasi tra fine Ottocento e inizi Novecento: il momento di congiunzione è la preservazione dell’universo rituale che segna tutto l’immaginario nipponico. Quando si sono fatte mostre sull’arte giapponese negli ultimi decenni quasi sempre si è finiti sugli stessi nomi e le stesse idee.
“Volpe”, maschera teatro Kyôgen - -
Anche a Torino hanno appena inaugurato alla Promotrice delle Belle Arti (fino al 25 giugno) una mostra con 300 fra disegni stampe e oggetti, che già nel titolo non esce dallo stereotipo: Utamaro, Hokusai, Hiroshige, ma per la verità nemmeno nei temi convocati nel sottotitolo: “Geishe, samurai e la civiltà del piacere”. Con lo stesso editore del catalogo, Skira (e qui coproduttore della mostra) nel 2016 si era tenuta a Milano, a Palazzo Reale, una mostra intitolata ai “soliti tre”: Hokusai, Hiroshige, Utamaro, ma con un sottotitolo più promettente: “Luoghi e volti del Giappone che ha conquistato l’Occidente”. La mostra di Torino, curata da Francesco Paolo Campione, direttore del Musec di Lugano, ha però alcune specificità, al di là della bellezza di molte opere prestate da collezioni private e pubbliche (in particolare dal Musec e la collezione Fagioli), che in se stesse valgono la visita. Per esempio la sezione delle maschere teatrali: precedute da quelle folcloriche, che sono vere evocazioni di demoni, sulle pareti vengono giustapposti altri “volti” che incarnano lo spirito e il carattere dei personaggi di scena nel teatro Nô e Kyôgen, sorti verso i XIV secolo, il secondo con sfumature più comiche. Nel Seicento si sviluppò da entrambi e dal Bunraku (che anima burattini con testi e musica), un teatro più popolare, il Kabuki, che ebbe anche riverberi sulle stampe xilografiche, di cui in mostra sono esposti vari fogli di artisti di solito meno visti: Shunshô, Chikashige, Kunisada, Hiroshada e il misterioso Sharaku, di cui pare si conoscano solo 150 fogli eseguiti in meno di un anno, con ossessiva attenzione agli attori del Kabuki, e nient’altro. La mostra si apre con una interessantissimo confronto fra disegni preparatori per la stampa, opere di Teisai Hokuba, eseguiti a metà XIX secolo. In catalogo Marta Boscolo Marchi ripercorre il processo creativo anche nella fabbricazione delle carte e ne esce la rappresentazione di un’architettura di competenze che lega insieme editori, artisti, artigiani, sponsor, acquirenti: quasi una metafora della stessa società giapponese. Sono esposti anche i quindici libri “Schizzi sparsi di Hokusai” realizzati a stampa con tre colori: nero, grigio e color carne. Nella sezione paesaggi, una delle più varie, si segnalano le stampe a quattro mani di Kunisada e Hiroshige, dove il primo realizzò le figure e il secondo la “finestra” sul paesaggio nello sfondo: riproducevano talvolta scene di teatro. Parlando di geishe e di piaceri non poteva mancare un’ampia sezione di stampe erotiche, shunga. Come spiega Marco Fagioli nel catalogo, il tramonto della stampa erotica fu anche una conseguenza dello scontro di classe che avrebbe portato alla caduta dell’ordine feudale retto dai samurai, i quali chiedevano più rigore morale rispetto allo stile gaudente dell’aristocrazia del secolo XVIII. D’altra parte, nella stampa erotica c’è tutto il Giappone rituale: il ruvido materialismo con cui vengono esibiti i genitali, simboli di potenze primordiali, confligge col contesto di sontuosa bellezza dell’insieme. L’erotismo giapponese, che ha prodotto raffinate biblioteche di libri d’artista, è un coagulo di libertinismo e lusso, dove il denaro e la forza ne sono referenti della potenza. Niente a che fare con Lusso calma e voluttà di Matisse, sarebbe un riferimento troppo spirituale per questo “materialismo realistico” che nasce dal sentimento che tutto finisce e il piacere diventa pegno della compassione, di segno buddhista, per questa fragilità umana. Nella congiunzione dei sessi lo spirito vitale si afferma, sacro e naturale, come le radici dell’albero che entrano nella terra madre.