Letteratura. Antonio Prete: «Il pessimismo di Leopardi? Un equivoco da chiarire»
Una scena di “Il giovane favoloso” di Mario Martone con Elio Germano nei panni del poeta Leopardi
Un bicentenario, un compleanno importante e poi due, anzi tre libri in rapida successione: per Antonio Prete il 2019 è un anno davvero particolare. Tra meno di un mese lo studioso compirà ottant’anni (è nato a Copertino, in provincia di Lecce, il 1° dicembre del 1939), presto l’editore Manni ristamperà una sua raccolta di prose autobiografiche, Torre saracena, mentre da Einaudi è appena uscita una nuova raccolta di poesie, Tutto è sempre ora (pagine 124, euro 11,50). Bollati Boringhieri, infine, pubblica il saggio La poesia del vivente (pagine 192, euro 17,00), nel quale Prete ricapitola la lunga consuetudine con l’opera e con il pensiero di Giacomo Leopardi. Questo, appunto, a due secoli esatti di distanza dalla composizione del più celebre tra gli idilli leopardiani, L’infinito. «Insieme con Baudelaire – ammette Prete, a lungo professore di Letterature comparate a Siena e a Padova – Leopardi è l’autore di cui mi sono occupato di più, e con maggior continuità».
In una prospettiva prevalentemente filosofica, però. Come mai?
«Mi sono formato alla Cattolica di Milano, alla scuola di Mario Apollonio, che praticava già la critica comparativa quando ancora la definizione non era diffusa in Italia. È stato il maestro di molti, da Giuseppe Pontiggia a Vincenzo Consolo passando per il poeta Antonio Porta. La filosofia è venuta in seguito, attraverso la lettura di Walter Benjamin, di Adorno, dei pensatori della Scuola di Francoforte. Grazie a loro ho imparato a interrogare la letteratura dal punto di vista della filosofia».
Un fuoco incrociato che sarebbe piaciuto a Leopardi.
«Me lo auguro. Di fatto, è quello che ho trovato nelle Operette morali, nei Canti, nel laboratorio dello : Zibaldone: un attraversamento del pensiero mediante un respiro poetico. Il concetto stesso di “infinito”, che in Leopardi è strettamente legato a quello di “indefinito”, rimanda ai limiti del sapere e spinge verso un territorio in cui è predominante la dimensione della lingua. È uno dei motivi per cui, come criterio generale e nel caso di Leopardi in particolare, bisogna sempre partire dalla conoscenza capillare del testo, senza lasciarsi troppo influenzare dalla letteratura critica, sulla quale ci si può soffermare in un secondo tempo».
In questo modo l’esercizio dell’interpretazione assume un carattere autobiografico, non trova?
«La parola poetica porta sempre con sé l’esperienza del vivere, ossia del conoscere attraverso i sensi. Al contrario di quanto si potrebbe immaginare, la corporeità ha un ruolo molto forte in poesia. Investe il vissuto e anche il non vissuto, quello che viene solo desiderato o pensato. Anche questa, in fondo, è biografia, perché tocca il bios, che è elemento personale, ma necessariamente individuale. L’esperienza di ciascuno può costituire un punto di partenza. Di sicuro, non è mai il punto di arrivo. Per quanto mi riguarda, in Torre saracena ho cercato di parlare del Salento come di una presenza della quale sono grato, mettendo me stesso in secondo piano. Anche in Tutto è sempre ora, inoltre, una sezione è riservata a testi in salentino».
Dopo tanti anni di letture e riletture, che cosa continua a colpirla in Leopardi?
«Il suo essere compagno della nostra interiorità. Anche sotto questo profilo L’infinito rimane un documento irrinunciabile. È il resoconto di uno sguardo che si muove nello spazio e nel tempo alla ricerca di una consistenza interiore. Parte dalla contemplazione dell’"ermo colle" e subito la riconduce al principio immaginativo della “finzione” da cui scaturisce una ricchissima drammaturgia interiore: l’ascolto del silenzio, il trascorrere delle stagioni, la mente che naufraga nel suo stesso pensiero. Non diversamente accade nello Zibaldone, dove lo stratificarsi di appunti relativi ai diversi saperi non impedisce e semmai favorisce il riaffiorare di ricordi, immagini, spunti di un’autobiografia eventuale che a più riprese fa tornare in mente i Saggi di Montaigne».
La vista esteriore dialoga con quella interiore?
«Esattamente. Qui agisce la lezione di Agostino, per quanto in Leopardi non venga mai meno un sottofondo di contraddizione molto vitale, una propensione al dubbio che è all’origine della sua apertura metafisica. La speranza, in Leopardi, si configura come possibilità che si oppone alla disperazione, in un contesto di estrema complessità che veramente rende inservibile la comoda etichetta del “pessimismo”. La sua poesia è, in definitiva, una poesia del sorriso, magari secondo il modello fissato da Democrito: il sapiente che guarda al mondo da una lontananza che non esclude il desiderio. Meglio: che riconosce nel desiderio, e dunque nella speranza, qualcosa di indispensabile all’uomo, simile al respiro stesso».
Perché insiste tanto sulla lontananza?
«Perché per me rappresenta l’essenza del pensiero critico. Senza dislocazione, senza il movimento che conduce in un luogo che permetta l’osservazione, la critica semplicemente non esiste. Su questo credo che si debba insistere più che mai oggi, nel momento in cui la tecnologia punta a cancellare la distanza o, se non altro, ad alimentare l’illusione che ogni distanza sia stata cancellata. Se così fosse, la nostra interiorità ne risulterebbe impoverita in modo forse irrimediabile. Si smarrirebbe il senso dell’alterità e, insieme, del limite che rende possibile la conoscenza. Venuto meno l’ermo colle, anche l’avventura dell’infinito sarebbe impossibile».