Letteratura. Quando il Novecento riscoprì la filosofia di Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi
Che Giacomo Leopardi sia stato non solo un grande poeta ma anche un vero filosofo, uno dei maggiori filosofi italiani, è diventato ormai un luogo comune. Filosofo soprattutto coerentemente materialista secondo alcuni, empirista secondo altri, o infine nichilista, benché eroicamente e generosamente morale nella sua compassione per la sorte infelice del genere umano, compassione che ispira solidarietà.
Oggi Leopardi sembra interessare più per i suoi eccezionali scritti in prosa, lo Zibaldone e le Operette morali, che per le sue poesie, un po’ logorate dalla routine scolastica, o meglio dal modo scolastico di leggere poesia. Il pensiero di Leopardi (non va dimenticato) è il pensiero di un giovane: quasi tutte le sue opere maggiori sono state scritte prima o appena dopo i trent’anni. Resta tuttora il più amato dei nostri poeti classici. Nelle sue pagine i giovani incontrano ciò che più li occupa e li preoccupa: l’amore e la felicità, la solitudine e la sofferenza, il senso o non senso da dare alla vita, la ricerca del piacere, il giudizio sui legami e le convenzioni sociali, l’alternanza fra illusioni e realtà, sentimento e ragione.
A proposito del pensiero di Leopardi, l’editore Nino Aragno ha appena pubblicato due eccellenti, appassionanti e lucidissimi volumetti a cura di Raoul Bruni, docente di letteratura italiana all’Università Cardinale Stefan Wyszynski di Varsavia: gli autori sono entrambi filosofi italiani della prima metà del Novecento, Giuseppe Rensi (1871-1941) e Adriano Tilgher (18871941).
L’interesse di queste pubblicazioni è duplice. Riguarda Leopardi filosofo, del tutto sottovalutato e spesso frainteso da una cultura italiana allora filosoficamente dominata dal neoidealismo liberale di Benedetto Croce e da quello fascista di Giovanni Gentile; ma riguarda anche due filosofi italiani originali e antiaccademici come Rensi e Tilgher, le cui opere sono trascurate o dimenticate forse perché trovarono nel pensiero di Leopardi un precedente fondamentale e una guida.
Secondo Rensi, già in un articolo antireligioso e anticlericale del 1906, c’era perfino da deplorare «che Leopardi sia stato troppo letterato e abbia dato alla cultura e all’opera letteraria una soverchia importanza. Se Leopardi fosse stato unicamente filosofo e avesse dedicato la sua intelligenza all’elaborazione d’un sistema, il pensiero italiano avrebbe avuto, prima e meglio di quello germanico, Schopenhauer e Nietzsche armonizzati in una costruzione unica» (Su Leopardi, pagine 109, euro 13,00).
In quegli anni Rensi, ancora socialista e nemico di ogni metafisica, loda in Leopardi il coraggio (quasi buddhistico) di riconoscere la «verità dell’infinito Nulla». Lui stesso filosofo scettico, nel 1919 Rensi, il cui pensiero aveva avuto una svolta critica nei confronti del valore universale della ragione, difende Leopardi in quanto seppe fare un uso «relativista, scettico e asistematico» del proprio illuminismo.
E se i «dogmatici contemporanei» guidati da Croce non gli riconoscono la qualità di filosofo è perché non accettano la «stilistica» del suo modo di pensare. Dunque qui Rensi rovescia i suoi precedenti dubbi su Leopardi letterato, che sarebbe invece filosofo originale e privo di pregiudizi proprio perché non scrive nel linguaggio sistematico dei filosofi di professione, non usa le loro categorie astratte, ma pensa e si esprime da poeta e da scrittore, da psicologo e moralista. Diffida di una società invadente, oppressiva e costrittiva come quella moderna, in cui gli esseri umani sono ridotti a «massa» e a forza di pensare all’«utile» si rende inutile la loro vita.
Anche per Tilgher, amico e seguace di Rensi, il pensiero critico e «risolutamente empirico» di Leopardi fa di lui «il nostro maggiore filosofo». Nel saggio La filosofia di Leopardi pubblicato nel 1940 (ora riproposto da Raoul Bruni insieme ad altri scritti, pagine180, euro 15,00) Tilgher organizza per concetti il suo commento leopardiano: si va da Piacere, Amore, Compassione, Dovere, Noia fino a Teologia Negativa, Materialismo, Storia della civiltà, Antiprogressismo, Antistoricismo.
Divenuto indifferente al cristianesimo e incerto anche nei confronti di Platone, sempre più Leopardi vede nell’idea di un Progresso «perpetuo necessario illimitato» niente altro che un’ideologia demiurgica e consolatoria che teologizza la Storia. Dice Tilgher: «Il Cristianesimo professava il Dio-Uomo; la filosofia del Progresso l’Uomo-Dio». Così l’onnipotenza veniva trasferita dal cielo in terra e messa nelle mani degli uomini, o più precisamente degli economisti e degli scienziati.